mercoledì 26 febbraio 2014

«Il taglio del bosco»: il vuoto incolmabile che la morte lascia dietro di sé

(articolo apparso su Prima Pagina del 22 febbraio 2014)

Apparso per la prima volta sulla rivista «Paragone» nel 1950, Il taglio del bosco forse non è l'opera più conosciuta di Carlo Cassola – molti studenti avranno senz'altro maggiore familiarità con La ragazza di Bube –, ma rientra di diritto nel novero dei grandi romanzi del Novecento. La quarta di copertina dell'edizione Oscar Mondadori del 1969 lo presentava senza esitazione come «il capolavoro riconosciuto» dello scrittore romano, a testimonianza di un successo di pubblico e di una considerazione che, oggi, paiono in parte – e ingiustamente – sbiaditi.
La vicenda ha per protagonista il trentottenne Guglielmo, un boscaiolo di San Dalmazio di Pomarance, in Val di Cecina, che ha da poco perso la moglie a causa di un male incurabile. Con lui vivono le due figlie, ancora bambine, e la sorella Caterina, che di fatto, oltre a ricoprire un ruolo materno in sostituzione della cognata defunta, manda avanti la casa durante i lunghi mesi invernali nei quali Guglielmo è costretto a lasciare il paese per ottemperare agli impegni di lavoro.
Se confrontata con l'angosciante vuoto lasciato dalla scomparsa della moglie, l'aspra vita del taglialegna appare però tutt'altro che sgradevole: il duro lavoro quotidiano – Guglielmo ne è convinto – è il solo modo per distrarre la mente, l'unico espediente che consenta di convivere con un dolore altrimenti insopportabile. Per questo, quando saluta la famiglia per andare a lavorare con quattro compagni in un bosco presso Massa Marittima (dove ha acquistato un «taglio», ossia il diritto di tagliare gli alberi in una determinata porzione di terreno), egli si sente, tutto sommato, sollevato. Tuttavia, neppure le interminabili giornate di lavoro riescono a lenire la sua acuta sofferenza. Ogni momento di pausa, durante le veglie notturne o nei giorni di pioggia, è infatti contrassegnato dall'affiorare di ricordi struggenti della vita matrimoniale. L'unica tregua, al di là del lavoro, è offerta dal sonno.
Rivivendo dentro di sé il passato, Guglielmo avverte una frustrante nostalgia per la sensazione di appagamento che provava nel compiere il suo lavoro quando la moglie era in vita. Il peso dei sacrifici, allora, era nullo se paragonato a quello, rassicurante, delle responsabilità: «Era grazie al suo lavoro – precisa il narratore – che la famiglia poteva condurre un'esistenza agiata e tranquilla. [...] Ora invece pensare a casa sua gli faceva male, e la vista [dal bosco] dei lumi lontani, che richiamavano quelle immagini familiari, gli pesava intollerabilmente».
Nemmeno condividendo con i compagni la propria sofferenza Guglielmo riesce a trovare pace. Anzi, prova invidia per chi, come il cugino Amedeo, ha ancora una moglie; e un'incredulità mista a rancore per il caposquadra Fiore, che vive solo per tagliare la legna, infischiandosene dei lutti («sembrava non averlo minimamente scosso la morte dell'unico maschio [...]. Il giorno dopo il trasporto era sul lavoro, coscienzioso e sgarbato come sempre») e della solitudine. Decide quindi di non fare ritorno al paese per il Natale, poiché, per quanto si sforzi di pensare al bene delle figlie, proprio non riesce ad accettare di trascorrere la festa senza la moglie. A differenza dei compagni – i quali, escluso lo scontroso Fiore, abbandonano il bosco per trascorrere un paio di giorni in famiglia – egli preferisce ridurre al minimo i contatti umani.
Terminato, dopo cinque mesi, il lavoro, a Guglielmo non resta che portare la legna dal carbonaio, prima di poter ritornare a casa. Anche il carbonaio è vedovo, e da quando ha perso la moglie – restando «solo come un cane, a cinquantun anni» – tutto gli pare monotono e insignificante. Le sue parole, colme di rassegnazione, risuonano come un tremendo grido d'aiuto rivolto nel vuoto. Di fatto, esse sono il preludio alla conclusione tragica del romanzo. Quando infatti, rientrato in paese, passa davanti al cimitero, Guglielmo scopre di non avere per nulla superato il suo dramma. Al culmine della disperazione, invoca, invano, l'aiuto della moglie: «Non era possibile continuare così. Lassù dal cielo doveva dargli la forza. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c'era una stella».
Il romanzo di Cassola è essenzialmente una drammatica riflessione sull'ineluttabilità del destino che attende chiunque si trovi a dover fare i conti con la morte. La fine tragica di Guglielmo – che evita di guardare in faccia il dolore, preferendo sottrarsi, attraverso il lavoro, al confronto quotidiano con il vuoto lasciato dalla perdita della moglie – è la conseguenza dell'ingenua ribellione di un uomo in cerca di spiegazioni che non accetta di doversi rassegnare al lutto. La realtà inconoscibile che si cela dietro la morte è per lui un'ingiustizia troppo opprimente: se infatti l'uomo non può far nulla per impedire la propria scomparsa, se basta un attimo per perdere una persona cara, se nella vita non esiste alcuna garanzia di felicità, quale ragione resta per prendere sul serio l'esistenza?
L'errore di Guglielmo è quello di credere che, distraendosi con il lavoro, l'angoscia e il dolore gli daranno tregua. La triste verità, però, è che non c'è modo per riempire il vuoto che avverte dentro di sé. È inutile tormentarsi con mille domande (come quella, che lo assilla, relativa agli ultimi attimi di vita della moglie, la quale – egli crede – ha cercato di dirgli qualcosa in punto di morte, ma non vi è riuscita a causa del delirio della febbre). Nulla, lascia intendere Cassola, ci è dato sapere sul perché la vita finisca, talvolta senza preavviso. La morte è un mistero con cui non si può fare a meno di convivere, così come il dolore e la solitudine.
Il problema è che è molto più semplice rassegnarsi alla propria morte che non a quella degli altri. Seppure inquietante, la caducità dell'esistenza non fa paura quanto l'idea di poter perdere una persona cara. A cosa si riduce, infatti, l'uomo quando sopraggiunge la più tetra solitudine? Se Guglielmo dava un senso alla propria vita sacrificandosi nel duro lavoro di boscaiolo per il bene della famiglia, cosa resta delle sue rassicuranti convinzioni ora che quella stessa famiglia ha subito una perdita irreparabile? Cassola, in sostanza, sta dicendo che ogni sforzo per comprimere la sofferenza derivante da una perdita è miseramente destinato a risultare vano. Quando una persona cara muore, è assurdo poter pensare di comprendere il dolore, è da ingenui illudersi che una ferita così profonda possa rimarginarsi completamente. Il dolore, in altre parole, non lo si può accettare: lo si subisce, poiché di fronte ad esso non esiste rimedio. Nessuno restituirà mai la moglie a Guglielmo. Il suo senso di vuoto, di smarrimento, potrà attenuarsi solo se egli saprà rassegnarsi ad aver perso per sempre una parte di sé. Il lavoro, la vita del taglialegna, la lontananza da casa sono tutti diversivi, ma non risolvono nulla. Anzi! Acquistando il taglio nel bosco, Guglielmo non fa altro che riprendere le vecchie abitudini, come se il passato potesse rivivere nel presente. Ma, se tutto è come prima nel lavoro e nel rapporto con i compagni, niente è più come prima a livello di condizione esistenziale. Ogni gesto, ogni parola, ogni persona che abbia un legame con il passato diviene uno specchio che riflette, implacabile, la felicità perduta.
Involontariamente, Guglielmo punisce se stesso in modo insostenibile. E, alla fine, finisce col cedere. Prima, infatti, colto dalla febbre durante il lavoro nel bosco, invoca la morte come una liberazione («Per la prima volta dopo la disgrazia, il pensiero della moglie non gli causava dolore, ma un senso di benessere e calma»); poi, giunto davanti al cimitero del paese, si lascia prendere dallo sconforto, poiché realizza, di colpo, che tutti i suoi sforzi per distrarsi sono risultati vani. Egli vorrebbe poter dimenticare, ma si rende conto che è impossibile. E Cassola, quasi a voler indicare l'unica via percorribile, gli mette in bocca – nella preghiera finale alla moglie defunta – queste disperate parole: «Rosa, aiutami tu. Rosa, mandami un po' di rassegnazione!». Niente pace, dunque: la morte è la fine di tutto; o, in alternativa, l'inizio di una nuova fase nella quale il passato è irrimediabilmente confinato nel ricordo. Quando alza gli occhi al cielo in cerca di un segno che gli venga dalla moglie, Guglielmo non vede altro che una volta buia, priva di stelle. Come a dire che i morti, quantomeno in questa vita – che però è l'unica conoscibile –, sono persi per sempre, ed è bene lasciarli andare. Per chi resta, l'unico rimedio per impedire che il dolore divori dall'interno la voglia di vivere è abbandonarsi alla rassegnazione.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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