domenica 2 febbraio 2014

L’uomo e l’attesa della fine: dalla «morte addomesticata» alla paura dell’aldilà

(articolo apparso su Prima Pagina del 25 gennaio 2014)

L'uomo contemporaneo non discute volentieri della morte, concetto di per sé divenuto quasi «innominabile». Per certi versi, si ha come l'impressione che ci si nasconda dietro una forzata reticenza per esorcizzare la paura dell'inevitabile. Scrive Philippe Ariès: «Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali. Tecnicamente, ammettiamo di poter morire, stipuliamo assicurazioni sulla vita per salvaguardare la famiglia dalla miseria. Ma in verità, in fondo al nostro cuore, ci sentiamo immortali».
L'atteggiamento dell'uomo di fronte alla morte non è però sempre stato lo stesso. Ariès, nel corso di un ciclo di quattro conferenze tenute presso la Johns Hopkins University (il cui testo apparve per la prima volta in inglese nel 1974, e oggi è raccolto, in italiano, nel volume Storia della morte in Occidente, Rizzoli 1998), studia l'evoluzione profonda di questo atteggiamento a partire dal Medioevo, dimostrando come esso si sia radicalmente modificato in poco meno di un millennio.
Per prima cosa, Ariès prende in considerazione i cavalieri della chanson de geste: innanzitutto, essi sono avvisati prima di morire. Orlando, a Roncisvalle, «sente che il suo tempo è finito»; Tristano «comprese che stava per morire». L'avviso, il riconoscimento dell'avvicinarsi della fine, è del tutto spontaneo, non ha nulla a che vedere con il soprannaturale. Anche don Chisciotte – e qui siamo già nel XVII secolo – avverte con chiarezza di essere «vicino a morire»; e proprio nella presa di coscienza di essere prossimo alla fine riacquista la ragione.
Ancora nel XIX secolo, Tolstoj in Tre morti racconta di un vecchio vetturale sofferente che, interrogato da una donna che gli chiede come si sente, risponde: «La morte mia è arrivata, ecco cos'è». In tutte queste testimonianze letterarie, la fine della vita è dunque attesa con pacata rassegnazione, «molto semplicemente» scrive Ariès. Essendo avvisato in anticipo, l'uomo dei romanzi ha tempo di predisporre precisi rituali prima di esalare l'ultimo respiro. Per prima cosa, si sdraia con lo sguardo rivolto verso il cielo. Seguono il rimpianto della vita (Orlando, per esempio, ricorda le propria gesta), il perdono degli astanti al capezzale, la preghiera e l'assoluzione impartita dal prete, dopodiché non resta che attendere la morte, che puntualmente arriva al termine del rituale.
La prima conclusione da trarre è che la morte, in tutti questi casi, è una cerimonia pubblica, che segue un preciso protocollo, cui il moribondo si attiene scrupolosamente. Le camere degli agonizzanti sono sovraffollate, al punto che nel XVIII secolo – scoperta l'importanza delle prime regole d'igiene – i medici spesso si lamentavano di quella che reputavano una consuetudine nociva. Il punto più importante su cui porre l'accento è però un altro: i riti mortuari non sono drammatici. L'uomo trapassa senza che i vivi provino particolari emozioni, poiché la morte, nelle società preindustriali, fa parte della vita quotidiana, è un'esperienza cui tutti sono assuefatti. Per questo Ariès la definisce «addomesticata»: la si conosce e non fa paura; rientra nell'ordine naturale delle cose.
La familiarità con la morte è all'origine della coesistenza dei vivi e dei morti. Gli antichi, pur avendo abitualmente a che fare con la morte, temevano questo tipo di promiscuità, tant'è che proibivano di seppellire i defunti in urbe. Fu il culto dei martiri a segnare un punto di svolta. I luoghi dove essi erano sepolti attirarono le sepolture dei fedeli, i quali credevano in questo modo di trovare protezione per i morti, ma anche per i vivi. Presso le sepolture extraurbane dei santi sorsero basiliche, attorno alle quali i cristiani volevano essere inumati, finché il contatto con i morti – favorito, del resto, anche dallo sviluppo dei sobborghi – non divenne così frequente da indurre le autorità ad abolire le disposizioni che imponevano di seppellire extra urbem.
Un significativo riflesso di questo passaggio è offerto dalla stessa semantica: nel linguaggio medievale, infatti, la parola chiesa non designa soltanto l'edificio di culto, ma anche tutto lo spazio circostante, compreso il cimitero, termine in origine dotto, cui inizialmente si preferiva la parola atrium (in francese aître), ad indicare, appunto, la parte esterna della chiesa. Ad essa si sovrappose col tempo la parola charnier (ossario), che alla fine del Medioevo divenne abituale per indicare i porticati, sormontati da ossari (dove le ossa, prelevate da fosse comuni, erano di frequente in bella vista e disposte con arte, per ottenere effetti decorativi), che delimitavano il cortile della chiesa. La conclusione di Ariès è che, per tutto il Medioevo e almeno fino al XVII secolo, ciò che importava era la collocazione della salma nel recinto sacro della chiesa, non la tomba, che invece per gli antichi contava in sé, a prescindere dallo spazio circostante.
La familiarità con la morte faceva sì che i vivi non si impressionassero quando le ossa affioravano in superficie nella terra dei cimiteri (si pensi al cranio di Amleto...). E non solo. Nel Medioevo la parola cimitero poteva indicare anche un luogo d'asilo, un punto d'incontro – una sorta di foro – presso il quale sorgevano persino delle botteghe. Questa doppia funzione deriva dalla consuetudine di cercare la protezione del martire: entro i muri del cimitero, non solo i morti, ma anche i vivi erano in pace Domini. In queste condizioni, ovviamente, il cimitero-asilo ebbe talvolta il sopravvento sul cimitero-luogo di inumazione, tant'è che in certi casi venivano creati cimiteri (cintati da muri e vicini a una cappella) entro i quali era addirittura proibito seppellire. Ma questa non era una regola fissa, a riprova di quanto fosse tollerata – almeno fino al XVII secolo – la promiscuità tra vivi e morti (non rare erano infatti le case costruite sopra gli ossari).
Entro l'ampia e duratura cornice della complessiva subordinazione del singolo al destino collettivo di un'umanità che accettava senza drammi le leggi di natura, è bene, ad ogni modo, prendere in esame anche quei fenomeni che introdussero, col tempo, una sempre più sentita preoccupazione per l'individuo. Ariès considera innanzitutto l'iconografia dei primi secoli del Medioevo, la quale sottintendeva un'escatologia che non contemplava alcuna forma di giudizio: i morti che si erano affidati alla Chiesa riposavano in pace sino al risveglio nella Gerusalemme celeste, il Paradiso. Nessun accenno era previsto alla responsabilità individuale: la salvezza era assicurata dalla protezione della Chiesa.
La scena cambia nell'iconografia del XII e, soprattutto, del XIII secolo, con la comparsa del giudizio. Cristo appare come giudice supremo, coadiuvato da una corte incaricata di pesare sulla bilancia le cattive e le buone azioni del defunto, scritte sul cosiddetto liber vitae. Esso, dapprima concepito come censimento universale dei giusti, diviene alla fine del Medioevo un registro personalizzato, con il bilancio delle azioni individuali da sottoporre al giudice. Significativamente, il momento del bilancio definitivo non corrisponde inizialmente a quello della morte, bensì alla fine dei tempi. Solo a partire dal XV secolo il tempo escatologico che intercorre tra la morte e la fine dei tempi risulta soppresso, con l'anticipazione del giudizio al momento del trapasso. Fanno così la loro comparsa nell'iconografia, direttamente al capezzale del moribondo, da un lato la corte celeste, dall'altro le forze del Demonio. Dio, non più giudice supremo, è arbitro della disputa tra le forze del bene e del male che si contendono l'anima dell'uomo prossimo alla fine. L'interpretazione corretta della scena non è però immediata: a prima vista, sembrerebbe infatti che il moribondo assista passivamente alla "conta" delle sue azioni; in realtà egli è messo alla prova, tentato di cedere alla disperazione per gli errori commessi o, al contrario, di abbandonarsi alla «vanagloria» per le buone azioni. La salvezza è il premio per chi si mostra forte e resiste alle tentazioni.
La rappresentazione tradizionale della morte – quella del capezzale "affollato" – viene pertanto a giustapporsi a quella, molto meno rassicurante, del giudizio individuale. In tal modo, se da un lato è enfatizzata la libertà del singolo, artefice del proprio destino, dall'altro è evidente che sull'attimo finale che precede la morte viene posto un accento drammatico. Fa la sua comparsa, in sostanza, la paura di un aldilà incerto, che si traduce nelle rappresentazioni terrificanti delle pene infernali. Tutto pare decidersi al momento del giudizio, il che – per la Chiesa della Controriforma – nascondeva non poche insidie, prima tra tutte l'idea che, a prescindere dalle opere terrene, una "buona morte" potesse garantire la salvezza. (Continua)

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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