(articolo apparso su Prima Pagina del 18 gennaio 2014)
Pubblicato nell'aprile del 1950 –
pochi mesi prima del suicidio del suo autore –, La luna e i falò è l'ultimo romanzo di Cesare Pavese, che riprende,
rivisitato in chiave antropologica, il classico motivo letterario del ritorno.
Non si tratta però, da parte del protagonista, di una riscoperta sentimentale
delle proprie origini: il ricordo del passato è uno sforzo di memoria compiuto
per riordinare le idee, per fare chiarezza sugli aspetti più controversi
dell'esistenza; è infine un gesto estremo che sopprime, insieme con i suoi
fantasmi, anche le illusioni della giovinezza.
Il
romanzo è narrato in prima persona dal protagonista, di cui viene detto solo il
soprannome, Anguilla. Egli è un trovatello che, dopo aver fatto fortuna in
America come emigrante, in seguito alla Liberazione fa ritorno al paese d'origine,
nelle Langhe, nel tentativo di dare un senso alla propria travagliata esistenza
attraverso la riscoperta dell'identità di quando era ragazzo.Il racconto non segue un percorso lineare: impressioni e ricordi, passato e presente continuamente si intrecciano, a definire quella che è di fatto una lunga e dolorosa riflessione. Anguilla, dopo tanti anni trascorsi lontano dai luoghi dove è cresciuto, fatica ad ambientarsi. Tutto è, allo stesso tempo, uguale e diverso: niente pare cambiato nel modo di vivere della gente, ma profondamente mutati sono gli occhi del protagonista, che vede cose che da giovane non riusciva a cogliere. Con l'amara consapevolezza di non essere più lo stesso, di avere perso l'entusiasmo con cui affrontava un tempo la vita, Anguilla ripercorre gli anni dell'infanzia, che sembrano avere preservato il solo Nuto, l'amico e compagno con cui è ancora possibile confidarsi.
Anguilla era stato adottato da una famiglia di poveri contadini (Padrino e Virgilia), che lavoravano in un podere sulla collina di Gaminella. Morta la madre adottiva, il padre aveva dovuto vendere la proprietà in seguito a una tremenda grandinata, lasciando che il figlio si trasferisse alla fattoria della Mora, dove vivevano il ricco possidente sor Matteo e le tre figlie Irene, Silvia e Santa. È lì che Anguilla aveva conosciuto Nuto – che gli aveva insegnato a vivere – e aveva fatto le sue prime significative esperienze, fino alla partenza per Genova per il servizio di leva e al successivo trasferimento in America, motivato anche dalla necessità di evitare problemi per via dei suoi contatti con ambienti antifascisti.
Rientrato in paese, Anguilla visita subito la Gaminella, che ora è coltivata dal mezzadro Valino. Questi ha un figlio, Cinto – un ragazzo sciancato costretto a subire i ripetuti maltrattamenti del padre –, nel quale il protagonista rivede se stesso da giovane. Tra i due nasce un'amicizia, con Anguilla nei panni di una sorta di fratello maggiore (sul modello di Nuto). Quando il Valino, a causa della miseria, in preda a una crisi di follia uccide la famiglia, dà fuoco alla Gaminella e infine si impicca, Cinto – che è l'unico a salvarsi – va subito a farsi rincuorare da Anguilla, il solo con cui abbia stretto un legame autentico.
Nel frattempo Anguilla è alla continua ricerca di se stesso attraverso Nuto, incaricato – lui che non ha mai lasciato il paese – di colmare il vuoto che separa il protagonista dai fatti impressi nella sua memoria. Anguilla si scontra così con un passato che non esiste più, che è morto proprio come le figlie del sor Matteo, tutte travolte da un destino ingeneroso; a malincuore, apprende che la guerra ha lasciato strascichi (oltre che numerosi cadaveri sepolti nei boschi), e che, al di là dell'apparenza, gli odi ideologici e di classe sono sempre pronti a riaffiorare. Di essi, racconta infine Nuto, era stata vittima anche Santa (l'unica di cui il protagonista non conosca la sorte), la più giovane e bella delle figlie di sor Matteo, giustiziata dai partigiani dopo essere stata scoperta a fare il doppio gioco con i fascisti. È questa la vicenda che conclude il romanzo: Anguilla si rende conto che il proposito di fare ordine nella sua vita sistemandosi, dopo tanto tempo, nel paese d'origine è destinato miseramente a fallire. L'ingenuità e le illusioni della giovinezza sono perdute per sempre, niente sarà mai più come prima.
Il romanzo di Pavese è un lungo resoconto di una travagliata riflessione sul senso dell'esistenza. Anguilla è un trovatello: non conosce i propri genitori, non sa di preciso dove è venuto al mondo. La sua vita è una continua ricerca di un punto di riferimento, di un appiglio cui aggrapparsi per evitare di sprofondare nel vuoto che egli avverte dentro di sé. Il paese dell'infanzia, che significativamente non è mai esplicitamente nominato, non è altro che il più affidabile surrogato del grembo materno, un rifugio dentro il quale il protagonista crede di poter trovare finalmente la pace.
L'idea iniziale di Anguilla è che solo rientrando nelle Langhe egli potrà capire veramente chi è, dopo avere cercato invano una risposta in America. Il passato, con le illusioni, i sogni e il senso di irrequietezza tipici dell'adolescenza, sembra essere, in sostanza, l'unica parentesi di vita autentica all'interno di un'esistenza avvertita come inutile, interamente spesa alla ricerca di un valido motivo per accettare le continue avversità quotidiane. «Così questo paese – afferma Anguilla nel primo capitolo –, dove non sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l'ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto».
Un paese, infatti, «vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo». Anguilla crede cioè di aver capito, finalmente, che il solo autentico legame possibile sia quello con la sua terra, l'unica «che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». In questo senso, egli si convince che la prova che nulla è cambiato sia costituita da Nuto, il suo amico d'infanzia che non ha mai lasciato il paese e che – per questo – incarna il paese, gli dà un volto e la possibilità di esprimersi con chiarezza. Se infatti l'America, dopo l'inganno iniziale, si è mostrata per quello che è – un'immensa nazione dispersiva, dove l'identità del singolo è sopraffatta dall'impossibilità di creare un saldo legame con un luogo –, la cura per il senso di stordimento derivante dalla consapevolezza di non avere più una casa non può che essere quella di ripercorrere, a ritroso, i propri passi in cerca delle proprie origini.
A questo ritorno allude, del resto, l'enigmatico titolo del romanzo. La luna e i falò sono importanti elementi che regolano l'attività agricola (si accendono i fuochi per ingrassare la terra e si seguono le fasi lunari per impostare il lavoro nei campi), che si caricano di forti valenze simboliche. Secondo le credenze popolari, il falò «fa piovere»; quanto alla luna – sostiene Nuto –, «prova a tagliare a luna piena un pino, te lo mangiano i vermi». La luna e i falò sono pertanto due componenti basilari del legame con la terra, con un paese in cui il tempo non è lineare, ma si ripete ciclicamente secondo l'alternarsi delle stagioni. Ma se la luna è il simbolo di ciò che ritorna, il fuoco del falò allude anche alla cancellazione di un passato che – come comprende infine lo stesso Anguilla – non è possibile recuperare. Significativo è, al riguardo, l'incendio appiccato da Valino nel casotto della Gaminella, così come la decisione finale dei partigiani di bruciare le spoglie mortali di Santa: non si tratta di un fuoco palingenetico, bensì di una forza distruttrice da cui nulla si salva, né la casa – di cui non restano che «riflessi rossi [...] a piede del muro», avvolto da «una fumata nera» –, né tantomeno la ragazza, che «a mezzogiorno era tutta cenere».
Attraverso i racconti di Nuto, Anguilla comprende dunque che il paese non è più lo stesso di quando era giovane. C'è stata la guerra, gli odi non sono ancora sopiti; ma soprattutto è cambiato lui. Il suo percorso di vita, del resto, è tutto un cambiamento: prima Gaminella, poi la Mora, Genova, l'America e di nuovo Genova, prima del ritorno al paese. Ma ormai Anguilla non è più lo stesso di prima: la civiltà lo ha trasformato, non è più un garzone con la mentalità del contadino. A differenza di Nuto, che non ha mai avvertito la necessità di partire (perché, in fondo, ha sempre saputo quale fosse il suo mondo), Anguilla non fa più parte della vita del paese, e infatti – contrariamente all'amico – non crede più alle superstizioni legate alla luna e ai falò. «La luna – non esita a dire Nuto, quasi con tono di rimprovero – bisogna crederci per forza». Ma Anguilla questo non può farlo: «Anche la storia della luna e dei falò la sapevo. Soltanto, m'ero accorto, che non sapevo più di saperla». Svanite le illusioni, il paese è per lui, ormai, niente più di un luogo. Come l'America, in fin dei conti.
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