(articolo apparso su Prima Pagina del 4 gennaio 2014)
I Greci avevano un'idea precisa di quale fosse l'essenza
della natura: una realtà immutabile – è quanto sostiene Eraclito – che «nessun
uomo e nessun dio fece, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che
divampa secondo misure e si spegne secondo misure».
Una visione del mondo di questo genere è ovviamente
incompatibile con qualsiasi progetto che preveda forme di dominio dell'uomo
sulla natura. Il cosmo, per i Greci, è perfettamente ordinato in sé, non una
creazione di un dio preesistente. E l'uomo non vi trova posto che come parte, costretta
ad adeguarsi all'ordine di un Tutto che ha necessariamente la precedenza sui
suoi singoli componenti. Platone, al riguardo, è chiarissimo: «Anche quel
piccolo frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha sempre il suo intimo
rapporto con il cosmo e un orientamento a esso, anche se non sembra che tu ti
accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice condizione
dell'universa armonia. Non per te, infatti, questa vita si svolge, ma tu
piuttosto vieni generato per la vita cosmica».In quanto parte di un Tutto che impone le proprie leggi, l'uomo segue il ciclo naturale che, dalla nascita, conduce inevitabilmente alla morte. Per i Greci l'uomo è, essenzialmente, colui che è destinato a perire. La stessa lingua ne è una prova: più che ánthropos, per nominare l'uomo i Greci preferivano, al tempo di Omero, il termine brotós (colui, appunto, che è destinato a morire) e, al tempo di Platone, il termine thnetós (mortale).
Se quindi la natura non è il prodotto della provvidenza divina, bensì – precisa Umberto Galimberti nel libro Cristianesimo (Feltrinelli 2012) – «ciclo che governa il generarsi e il dissolversi di tutte le vite», ne consegue che la morte dei singoli diviene una componente necessaria della vita del Tutto, che continuamente si rigenera. Il dolore, in altre parole, non ha – contrariamente a quanto avviene nella tradizione giudaico-cristiana – alcun senso, ma è una componente intrinseca alla vita stessa, condizione imprescindibile del suo divenire. Nietzsche ritiene che questa sia l'essenza del tragico, che i Greci – essi soli – hanno saputo cogliere alla perfezione: la loro grandezza, scrive, consiste proprio nell'aver avuto il coraggio di «guardare in faccia il dolore e di conoscere e sentire i terrori e le atrocità dell'esistenza».
La caducità dell'esistenza individuale rispetto all'eterna circolarità di vita e morte spinse ad ogni modo i Greci a rifugiarsi nell'illusione eternizzante delle divinità dell'Olimpo. Ma, per poter meglio sopportare la consapevolezza di una fine inevitabile, ci voleva qualcosa di più solido rispetto a quello che Nietzsche definisce «specchio trasfiguratore». E i Greci l'individuarono nella ragione, intesa non come rivendicazione di un assurdo diritto di preminenza del singolo sul Tutto, bensì come atto volto a rendere più sopportabile la consapevolezza della morte attraverso l'acquisizione di conoscenze che diano modo di procrastinarla o – per dirla con Ippocrate – di «evitarla quando è evitabile». La virtù, per i Greci, è la capacità di vivere accettando le avversità e tentando di contrastarle con la conoscenza. Il tutto senza mai oltrepassare la giusta misura, poiché l'uomo che oltrepassa i propri limiti va incontro alla fine. A questo, del resto, servivano gli dei, ad indicare un limite. È quanto intende anche Dante nei celebri versi del XXVI canto dell'Inferno: «Fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza». Si tratta, scrive Galimberti, dell'«essenza della grecità che, per uscire dallo sfondo tragico, non escogita speranze di immortalità perché sarebbe tracotanza [...], ma virtù e conoscenza per alleviare il dolore e procrastinare la morte».
Nella riflessione nietzschana, l'avvento del cristianesimo va collocato nel vuoto lasciato dalla morte della visione tragica dell'esistenza. Il cristianesimo ha rotto, cioè, il nesso bontà-crudeltà insito nella natura di matrice greca, poiché, secondo la sua visione del mondo, se da un lato la natura è buona in quanto creatura divina, dall'altro l'uomo eredita la crudeltà come conseguenza della colpa del peccato originale. Attribuendo al dolore il preciso significato dell'espiazione, il cristianesimo ha di fatto decretato la morte della tragedia, creando un nuovo, rivoluzionario nesso tra sofferenza e speranza (che si traduce nella certezza della salvezza). Il concetto è chiaramente spiegato da Karl Jaspers: «La redenzione cristiana si oppone alla coscienza tragica. La possibilità che ha il singolo di salvarsi distrugge il senso tragico di una rovina senza scampo. Ecco perché non esiste una vera e propria tragedia cristiana, perché nel dramma cristiano il mistero della redenzione costituisce la base e l'atmosfera dell'azione, e la coscienza tragica è risolta a priori nella certezza di poter raggiungere la perfezione e la salvezza attraverso la grazia».
Se quindi la sofferenza deriva dalla colpa, ne consegue che, di per sé, essa non permea l'essenza della vita, dal momento che della vera vita non fa parte il dolore. Il cristianesimo considera l'esperienza terrena come una fase transeunte, un transito da cui accedere alla futura liberazione, tant'è che Agostino afferma che «chi ama il mondo non conosce Dio». Il dolore, in altre parole, perde la sua intrinseca componente tragica e diviene una caparra per l'aldilà, una garanzia di salvezza. L'etica stoica del substine et abstine (cioè sopportazione delle avversità e astensione da ciò che non si può controllare) cede il passo all'amore del dolore, anticamera dell'espiazione. Il Greco regge il dolore, il cristiano lo ama poiché gli conferisce un senso come pegno di redenzione.
Per il cristiano la vera vita non è quella terrena, ma quella eterna, che ignora la sofferenza. Con il sacrificio e la risurrezione di Gesù, il cristianesimo sconfigge la morte, con la conseguenza che la storia passa dalle mani dell'uomo a quelle di Dio, verso il quale l'uomo contrae un debito infinito. È questo che Nietzsche considera il «colpo di genio del cristianesimo»: «Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell'uomo, Dio stesso che si ripaga su se stesso, Dio come l'unico che può riscattare l'uomo da ciò che per l'uomo stesso è divenuto irriscattabile – il creditore che si sacrifica per il suo debitore per amore (dobbiamo poi crederci?) per amore verso il suo debitore».
Se dunque dolore e morte sono innaturali, e quindi riscattabili con la redenzione, la promessa della salvezza diviene l'arma con la quale l'uomo ha prevalso sulla paura della propria fine, decretando la sconfitta della grecità. Di fronte alla promessa di un'esistenza ultraterrena, l'uomo Greco avrebbe reagito con divertito stupore. Del resto, quando Paolo parla di risurrezione all'Areopago, gli Ateniesi replicano: «Questa storia ce la vieni a raccontare un'altra volta».
L'uomo cristiano, invece, non crede che il dolore e la morte siano semplici leggi di natura: la prospettiva della salvezza gli consente infatti di riporre speranza e ottimismo nel futuro. La stessa concezione del tempo, da ciclica, diviene protesa verso l'avvenire di salvezza. Contrariamente ai Greci, per i quali il passato era l'età dell'oro, il cristianesimo introduce una visione tripartita del tempo che si ripercuote su ogni aspetto dell'esistenza. Al passato corrisponde il male del peccato originale; al presente la redenzione, che passa attraverso la comprensione della natura salvifica del dolore; al futuro, infine, la salvezza. Si tratta di una triade che interessa, per esempio, anche la scienza (passato-ignoranza, presente-ricerca, futuro-progresso) o la sociologia (passato-ingiustizia, presente-riforma o rivoluzione, futuro-giustizia sulla terra). Secondo questa prospettiva, tutto, in Occidente, è cristiano, poiché figlio di una concezione rigorosamente ottimistica del futuro. E quando la Chiesa chiede che siano riconosciute le radici cristiane dell'Europa, «questo riconoscimento – scrive Galimberti – andrebbe esteso all'intero Occidente, che di cristiano non ha solo le radici, ma il tronco, i rami, le foglie, i frutti».
Oggi, tuttavia, il mondo sta cambiando. Nietzsche, infatti, ci dice anche che «Dio è morto», non perché non esiste (altrimenti non sarebbe morto), ma nel senso che il mondo ha ormai deciso che può fare a meno di lui. Dire che Dio è morto significa altresì che prima era vivo. Nel Medioevo, per esempio, tutto accadeva in funzione di Dio, dalla politica all'arte; ma, domanda Galimberti, «se dal mondo contemporaneo togliessimo la parola "Dio" riusciremmo ancora a comprenderlo?». La risposta, evidentemente, è sì, mentre se togliessimo la parola «tecnica» o la parola «denaro», del mondo di oggi non capiremmo nulla.
Heidegger ha così commentato l'intuizione di Nietzsche: «La morte di Dio esprime il tramonto della dimensione metafisica che, a partire da Platone, pensa Dio, l'Iperuranio, il Sovrasensibile come "causa suprema", come "spiegazione" e "fondamento" delle cose sensibili, verso cui è protesa la volontà di potenza dell'uomo». Non solo, quindi, il Dio cristiano è morto: anche quello rappresentato dal Sole nel mito della caverna di Platone ha abbandonato l'uomo, che ha perso con esso ogni suo punto di riferimento. Il risultato, per Nietzsche, è «il nulla infinito». In una parola, quel nichilismo che egli definisce con poche incisive parole: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che significa nichilismo? – che i valori supremi perdono valore». E non vengono rimpiazzati.
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