(articolo apparso su Prima Pagina del 28 dicembre 2013)
Pronunciato all'Athénée Royal di Parigi nel 1819, il Discorso sulla libertà degli antichi,
paragonata alla libertà dei moderni costituisce oramai, oltre che il testo
più noto di Benjamin Constant, un grande classico del pensiero politico di età
contemporanea.
Oggi siamo portati a considerare la libertà un diritto – chiaramente
– inalienabile; chiunque, a parole, non tollererebbe alcuna limitazione di
quello che è comunemente considerato in assoluto il bene più prezioso. Tuttavia
alla domanda «Che cos'è la libertà?» non è per niente facile rispondere. Di
solito si ripete, a mo' di filastrocca, che la libertà di ogni membro di una
comunità si estende fino al limite superato il quale si compromette la libertà
di un altro individuo. Ma è sufficiente una spiegazione di questo genere? In
concreto, quand'è che un cittadino può considerarsi libero? La riflessione di
Constant consente al riguardo di fare un po' di chiarezza: capire cosa è logico
aspettarsi dalla libertà (intesa ovviamente secondo l'accezione politica del
termine, essendo di per sé il concetto di libertà intrinsecamente polivalente)
rappresenta del resto il presupposto indispensabile di quell'opera di vigilanza
sui pubblici poteri che spetta di diritto alla comunità dei cittadini, rispetto
alla quale lo Stato deve (o meglio dovrebbe, visti i tempi che corrono) comportarsi
da servo e non da padrone. Nel suo discorso, Constant distingue due forme diametralmente opposte di libertà, che non vanno assolutamente confuse tra loro: quella degli antichi e quella dei moderni. Quest'ultima è basata essenzialmente sul governo rappresentativo, «il solo al cui riparo ci sia oggi possibile trovare un po' di libertà». Contrariamente a quanto più volte sostenuto da osservatori superficiali, il governo rappresentativo è una peculiarità delle società contemporanee. Esso era infatti sconosciuto agli antichi, e chi ritenesse di trovarne significative anticipazioni nell'eforato di Sparta – la magistratura che limitava il potere dei re –, nel guerriero «regime dei galli» o nel tribunato romano si scontrerebbe inevitabilmente con l'obiezione che, nei primi due casi, il popolo era oppresso da un'oligarchia, mentre nel terzo era tutt'al più gratificato da «deboli vestigia del sistema rappresentativo».
Gli antichi, infatti, non avrebbero nemmeno saputo apprezzare i vantaggi di un sistema rappresentativo. La loro libertà era il frutto di un esercizio collettivo e diretto della sovranità, consistente nella gestione dello Stato attraverso deliberazioni inerenti alla pace o alla guerra, ai trattati di alleanza, alle leggi e ai giudizi. Le società antiche valorizzavano il singolo solo come componente di una comunità: nulla – precisa Constant – era «concesso all'indipendenza individuale rispetto alle opinioni, né rispetto all'occupazione, né soprattutto rispetto alla religione». La dimensione collettiva, in altre parole, pervadeva quella del singolo, con la conseguenza che un individuo poteva ritenersi libero solo se coinvolto nella vita pubblica dello Stato e riconosciuto come parte di un insieme.
Con tutta evidenza, nessun uomo moderno descriverebbe la libertà in questi termini. Già all'epoca di Constant – e ancor più ai giorni nostri – la libertà era associata non al coinvolgimento individuale nella vita dello Stato, bensì, al contrario, alla tutela dell'indipendenza privata potenzialmente minacciata dall'invadenza dello Stato. Il moderno cittadino pretende quindi di essere subordinato esclusivamente alle leggi, di esprimere la propria opinione, di disporre dei beni di sua proprietà, di muoversi senza vincoli, di potersi riunire in associazioni, di professare la propria religione e, infine, di esercitare influenza sul governo sia eleggendone i membri, sia condizionandone l'operato, eventualmente, con richieste o rimostranze. Come è facile intuire, la libertà dei moderni ha una prevalente connotazione negativa (che proibisce, cioè, di violare i diritti del singolo e frena l'invadenza dello Stato), nettamente dominante rispetto a quella positiva (che consente di intervenire nella vita pubblica). La conseguenza, rileva Constant, è che nelle società moderne «l'individuo, indipendente nella vita privata, [...] non è sovrano che in apparenza. La sua sovranità è ristretta, quasi sempre sospesa; e se, ad epoche fisse, ma rare, [...] esercita tale sovranità, è sempre per abdicarvi».
In questa considerazione, ovviamente, va tenuto conto delle mutate dimensioni degli Stati, i quali in età antica erano così frammentati da richiedere il costante impegno militare dei cittadini. La guerra – che va intesa, rispetto al commercio, come un diverso mezzo per raggiungere il medesimo scopo, ovvero accaparrarsi ciò di cui si ha bisogno – comportava infatti la necessità di servirsi di cittadini in armi, i quali ottenevano appunto lo status di cittadino in cambio del servizio militare. La libertà politica loro concessa era dunque un diritto accordato solo previo adempimento del dovere di soldato, il che a sua volta rendeva necessario che «le professioni meccaniche» non potessero prescindere dall'apporto di manodopera schiavile. Ebbene oggi, in un mondo che ha compreso i vantaggi economici del commercio rispetto alla guerra, la libertà è prima di tutto un diritto, che va garantito anche a chi non ha nulla da offrire in cambio e che, invece, nell'antichità non poteva dirsi completamente tutelato nemmeno ad Atene – la più "moderna" delle poleis greche –, dove vigeva la severa pratica dell'ostracismo.
A parere di Constant è proprio la mentalità commerciale ad ispirare «agli uomini un vivo amore per l'indipendenza individuale». Grazie agli scambi, infatti, il singolo è perfettamente in grado di soddisfare i propri bisogni senza dover ricorrere all'autorità; anzi, non solo provvede autonomamente a se stesso, ma si mostra insofferente rispetto alle intromissioni nella sua sfera privata del potere collettivo. Persino l'esercizio dei diritti politici, che per gli uomini liberi dell'antichità costituiva un prolungato «riempitivo obbligato», rappresenta il più delle volte un fastidio per l'uomo moderno, il quale, «occupato dalle sue speculazioni, dalle sue iniziative, dai godimenti che ottiene o che spera, non vuole esserne distolto che per un momento e il meno possibile».
La partecipazione quotidiana alla gestione della cosa pubblica, per ottenere la quale gli antichi erano disposti a sacrificare porzioni significative di libertà individuale, non è più la massima aspirazione del singolo. Per questo i moderni hanno introdotto il sistema rappresentativo: poiché, al pari degli uomini ricchi che si dotano di intendenti per la cura dei propri affari, essi delegano a governanti eletti la cura degli affari di Stato, dal momento che il popolo «vuole che i suoi interessi siano difesi e tuttavia non ha il tempo di difenderli sempre in prima persona». Il che, sia chiaro, non implica affatto che i cittadini debbano completamente trascurare la vita pubblica. La libertà politica, infatti, richiede un'attenta opera di sorveglianza sui rappresentanti – chiamati a rendere conto del loro operato – ed è la suprema garanzia della libertà individuale, universalmente considerata la più preziosa.
L'errore più grave che la società moderna possa commettere è pertanto quello di ritenere adatta a sé la libertà degli antichi, estendendo a dismisura – sulla scia di quanto ingenuamente affermato da autori come Rousseau e l'abate di Mably – il raggio d'azione del potere pubblico a scapito dell'indipendenza dei singoli. Pretendere, come accadde durante la Rivoluzione francese, che la legge vincoli l'agire dell'uomo «senza tregua e senza lasciargli un asilo dove [possa] sfuggire al suo potere», conduce inevitabilmente una società al dispotismo. Il modello della Roma repubblicana (con i censori preposti al controllo dei costumi), o di Sparta, massimo esempio di asservimento dell'individuo al volere della collettività, non è più applicabile nel mondo moderno. Sacrificare la libertà individuale in cambio del diritto a partecipare alla vita pubblica equivarrebbe infatti a rinunciare al «più per ottenere il meno». Nella società contemporanea, conclude Constant, «sarebbe [...] più facile fare un popolo di spartani da un popolo di schiavi, che formare degli spartani attraverso la libertà».
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