lunedì 16 dicembre 2013

La maschera imposta dal giudizio collettivo: «La patente», atto d'accusa contro la «schifosa umanità»

(articolo apparso su Prima Pagina del 14 dicembre 2013)

La patente è una delle più conosciute novelle di Luigi Pirandello. Fu pubblicata per la prima volta il 9 agosto 1911 sul «Corriere della Sera»; ripresa quattro anni dopo nella raccolta La trappola, fu infine accolta, nel 1922, ne La rallegrata, terzo volume delle Novelle per un anno.
La trama è esilissima.
Il giudice D'Andrea è un individuo solitario e un po' bizzarro, il cui «strambo» aspetto fisico (ha «una spalla più alta dell'altra» e uno «smunto sparuto viso di bianco» su cui risaltano «capelli crespi gremiti da negro») rispecchia comportamenti piuttosto insoliti. Di notte egli ha l'abitudine di abbandonarsi a lunghe riflessioni filosofiche, dalle quali tuttavia non ricava che «la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo».
Il giudice D'Andrea è inoltre un uomo moralmente retto e ligio al dovere, che non lascia «mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare». Un caso particolare, tuttavia, gli dà il tormento: un tal Chiàrchiaro, un povero disgraziato che la gente comune considera uno iettatore, ha sporto denuncia per diffamazione contro due persone dopo averle sorprese a fare gli scongiuri al suo passaggio. Il giudice sa perfettamente che il malcapitato, pur essendo vittima di «una spietata ingiustizia», non ha alcuna possibilità di vincere la causa. Come condannare infatti due autori di un gesto sgradevole se gli stessi colleghi giudici mostrano di temere gli arcani "poteri" del Chiàrchiaro, se tutti i concittadini potrebbero testimoniare che egli è da tempo al corrente della diffusione della propria fama di iettatore? Perché prendersela solo con due persone in particolare?
Per essere comunque d'aiuto al povero Chiàrchiaro, il giudice D'Andrea decide di convocarlo in tribunale per dissuaderlo dall'intentare una causa, persa in partenza, che peggiorerebbe solo le cose. Ma l'incontro tra i due avviene in modo insolito: il Chiàrchiaro, infatti, si presenta nell'ufficio del giudice conciato in maniera bizzarra, con la barba incolta, «un pajo di grossi occhiali cerchiati d'osso» e un abito grigiastro. Esattamente come la fantasia popolare immagina debba essere il perfetto iettatore.
Ovviamente il D'Andrea, quasi inebetito, si mostra infastidito dalla messinscena, anche perché trova che le dicerie su quell'uomo con «l'aspetto d'un barbagianni» siano solo becere invenzioni. Egli proprio non capisce come si possa sporgere denuncia per diffamazione e, allo stesso tempo, incoraggiare di proposito le malelingue con un comportamento volto proprio a confermare i pregiudizi delle stesse. A sorpresa, tuttavia, il Chiàrchiaro gli rivolge questa criptica domanda: «Ah, lei si figura di fare il mio bene [...] dicendo di non credere alla jettatura?».
Il punto è che il Chiàrchiaro non vuole vincere la causa, bensì ottenere, con la sconfitta, un riconoscimento ufficiale (una «patente») del potere di arrecare sventura. È questo l'unico «capitale» che gli è rimasto dopo aver perso il lavoro a causa delle dicerie: «Signor giudice – è la conclusione cui giunge Chiàrchiaro –, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore. [...] E ci sono tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell'ignoranza? io dico della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d'avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città».
La novella è divisa da Pirandello – attraverso spazi tipografici lasciati in bianco – in tre parti. Nella prima viene presentato il giudice D'Andrea, un personaggio «strambo» e dall'aspetto non comune, le cui inconcludenti elucubrazioni cozzano palesemente con la sua professione. La certezza, tipicamente pirandelliana, di «non poter nulla sapere» si scontra infatti col ruolo istituzionale di amministratore della giustizia: il D'Andrea, che per mestiere deve saper distinguere il falso dal vero, non è in grado, in realtà, di comprendere il senso dell'esistenza. Le riflessioni notturne, che non portano ad alcun risultato concreto, non fanno altro che suscitare nuove angosciose domande.
Forse proprio perché avverte l'esigenza di mettere ordine alla sua vita, il D'Andrea è un lavoratore indefesso, che non trascura mai una pratica, anche a costo di restare in ufficio fino a tardi. Ma il caso del Chiàrchiaro – descritto nella seconda sezione – proprio non riesce a gestirlo. Il malcapitato, presunto iettatore, è una vittima innocente dell'ignoranza della gente, la quale per superstizione, cattivo gusto o chissà cosa ha emesso una condanna "sicura", dalla quale è impossibile sfuggire. Non importa che il Chiàrchiaro sia solo un poveraccio senza colpa: il marchio di iettatore gli è stato impresso a fuoco sulla carne e non c'è niente che si possa fare per cancellarlo. Persino i giudici, i custodi del tempio della ragione e della legge, contribuiscono a diffondere le dicerie, ad alimentare lo stolto pregiudizio.
A differenza del giudice D'Andrea, il Chiàrchiaro ha lucidamente compreso quale sia la strada più facilmente percorribile. Travolto dalle chiacchiere maligne della gente, egli non si oppone alla corrente, incontrastabile, del pensare comune, ma l'asseconda. Se tutti hanno deciso che debba indossare la maschera dello iettatore, tanto vale formalizzare la sentenza che lo condanna a vestire i panni del menagramo e farsi rilasciare dal tribunale una patente ufficiale. Chiàrchiaro – al cui sfogo è dedicato il terzo nucleo narrativo della novella – è consapevole che è impossibile sfuggire all'altrui giudizio: ogni uomo, del resto, dovrebbe rendersi conto che non sempre è consentito indossare la maschera che si desidera. L'aspetto umoristico – nel senso pirandelliano del termine – dell'intera vicenda risiede quindi nel paradosso che il Chiàrchiaro pretenda l'istituzionalizzazione della propria ingiusta condizione proprio dall'ente, il tribunale, cui abitualmente ci si rivolge per ottenere giustizia.
Pirandello si interroga, in definitiva, sul contrasto tra verità e maschera. Se l'io è, essenzialmente, il riflesso di sé nell'altro, allora esistono tanti io quanti sono i punti di vista da cui si osserva. Come Vitangelo Moscarda, che in Uno, nessuno e centomila si rende conto che l'unità della sua persona si sgretola nelle centomila immagini che egli lascia trasparire di sé (e quindi realizza che avere infiniti volti equivale a non averne nessuno), così il Chiàrchiaro intuisce che è inutile pretendere di indossare un'unica maschera. Tuttavia, a differenza di Moscarda, egli coglie l'opportunità di annullare se stesso in una maschera ben definita, che gli restituisce una sicura – seppur spiacevole – identità. Per questo definisce «tassa della salute» il prezzo che tutti dovranno pagare per evitare la sventura che egli ha il potere di "somministrare". La sua vendetta contro la «schifosa umanità» che lo ha privato della possibilità di mostrarsi in pubblico per quello che pensa di essere consiste nel farsi restituire un'identità. Piuttosto che annegare nel mare dell'indifferenziato, Chiàrchiaro preferisce indossare una maschera che, per quanto odiosa, tiene in vita un simulacro del suo io. La salute che va cercando è la sopravvivenza dell'unica forma di riconoscimento sociale che gli sia rimasta.
La verità, pertanto, è inaccessibile, nel senso che tanto il giudice D'Andrea – che nelle meditazioni notturne vede continuamente frustrati i propri tentativi di venire a capo della complessità del mondo – quanto il Chiàrchiaro – il quale, non potendo mostrare in pubblico la (presunta) reale immagine di se stesso, accetta di portare la maschera che altri, senza alcun motivo, hanno scelto per lui – sono impossibilitati a dare un senso alla propria vita. E se al primo stanno bene i panni del giudice, al secondo, obtorto collo, calzano alla perfezione quelli dello iettatore. Come direbbe Pirandello, così è (se vi pare).

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero 

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