(articolo apparso su Prima Pagina dell'11 gennaio 2014)
Sono trascorsi più di quindici anni
dalla sua prima edizione, ma Homo videns (Laterza 1997) – illuminante
saggio del politologo Giovanni Sartori – conserva ancora intatta tutta la sua
capacità di suggerire utili riflessioni. La domanda da cui è necessario partire
è la seguente: in che senso la televisione, o meglio il tele-vedere, modifica
il modo in cui gli individui si rapportano con la società?
Innanzitutto, rileva Sartori, è bene
tenere presente che ciò che distingue l'uomo dalle altre specie è
essenzialmente «la sua capacità simbolica», ovvero la capacità di comunicare
attraverso segni e suoni dotati di significato. Anche se esistono molteplici
forme di linguaggio, è la parola a rendere l'uomo un animal symbolicum perfettamente in grado di padroneggiare un
linguaggio che è esso stesso pensiero, nel senso che la conoscenza e il sapere
si costruiscono «in linguaggio e con il linguaggio». Premesso dunque che il pensare e il comunicare sono in funzione del linguaggio, ne consegue, da un lato, che il vedere non ha nulla a che fare con il pensare, se è vero che il pensiero non è visibile; dall'altro, che è la scrittura il principale veicolo di pensiero, dal momento che la parola scritta non comunica alcun significato se non è elaborata, interpretata e capita dalla mente pensante del lettore. Pertanto, fino all'avvento della televisione, «l'homo sapiens che moltiplica il proprio sapere è [...] il cosiddetto uomo di Gutenberg»; e non può essere altrimenti nemmeno oggi, nonostante la televisione abbia ridotto all'osso le capacità cognitive del cittadino medio.
La televisione (ossia «vedere da lontano» – tele) ha stravolto il mondo della comunicazione. Oggi il vedere prevale nettamente sul parlare, col risultato che, davanti allo schermo, l'uomo perde la propria capacità simbolica, si accontenta pigramente dell'immagine (che domina anche nei confronti delle voci parlanti) e si trasforma in homo videns. Fino alla metà del Novecento il mondo veniva raccontato a parole: e la parola, per essere veicolo di comunicazione, deve essere capita. Oggi invece il mondo è presente in ogni casa sotto forma di immagini, il cui commento è sempre in funzione di ciò che viene fatto vedere.
Ma c'è dell'altro: ai nostri giorni la televisione costituisce la prima scuola per il bambino, il quale, ben prima di cominciare la scuola vera e propria, «riceve il suo imprint, il suo stampo formativo, da immagini in un mondo tutto incentrato sul vedere». Completamente assorbito dalla televisione, il bambino non solo si abitua a non leggere, ma – il che è ancora peggio – finisce per associare alla lettura un senso di noia. Leggere richiede uno sforzo per capire: perché mai un bambino dovrebbe scegliere di proposito di fare fatica, quando ha a disposizione, con nessuno sforzo, il mondo del tele-vedere?
Il punto è che il video-bambino non diventa mai veramente adulto, e a trent'anni si ritrova ancora in uno stato di atrofia mentale che lo spinge inesorabilmente a far proprio lo slogan «la cultura, che barba» (coniato – questo è il bello – nientepopodimeno che da Ambra Angiolini, una che quando parla di cultura ha sempre ben chiaro cosa dire). Di fronte a una questione così delicata, fanno semplicemente ridere le argomentazioni dei difensori a oltranza del tele-vedere, i quali sostengono che la televisione abbia reso alla portata di tutti ciò che in precedenza, attraverso i libri, raggiungeva una ristretta élite. La cultura, infatti, non si concilia con l'insipienza: essa è prerogativa di chi sa, appartiene, tautologicamente, ai colti, non agli ignoranti. Pertanto la «cultura dell'incultura» prodotta dalla televisione non è affatto una cultura alternativa a quella dei libri: è, e rimarrà sempre, una non-cultura, a meno che non ci si rassegni a sostenere che, pur di rimpiazzare un mondo in cui il sapere è appannaggio di pochi, è preferibile che nessuno sappia niente.
La televisione non è un male di per sé. Molti sostengono, per esempio, che il capire per concetti e il capire per immagini si possano perfettamente integrare. E avrebbero anche ragione, se non fosse che la televisione riduce tutto a spettacolo, emargina – per non dire sopprime – la cultura e, dati alla mano, sottrae tempo alla lettura. Oggi poi abbiamo anche Internet, che in teoria potrebbe promuovere crescita culturale, ma in pratica favorisce l'intorpidimento cognitivo, dal momento che «l'homo videns è già tale quando si imbatte nella rete» e, navigando, è facilmente attratto da contenuti frivoli. Se quindi alle ventiquattro ore di una giornata se ne sottraggono, mediamente, sette per dormire, dieci di lavoro (spostamenti compresi) e due per mangiare e lavarsi, restano solo cinque ore libere, per lo più impiegate per rimbambirsi davanti a uno schermo. Risultato: i libri nessuno più li compra, né tantomeno li legge.
Il problema principale della televisione è dunque che essa o intrattiene (coltivando l'homo ludens) o informa (male) senza diffondere alcuna conoscenza. E siccome è evidente che «il popolo sovrano "opina" soprattutto in funzione di come la televisione lo induce a opinare», ne consegue che la stessa politica non può assolutamente prescindere dalla comunicazione di tipo televisivo. Ma se la democrazia si basa sull'opinione dei governati, allora – puntualizza Sartori – il punto è stabilire come si forma l'opinione pubblica. Ed è fin troppo chiaro che la televisione sta imponendo una rigida videocrazia, nella quale essa compromette la capacità del pubblico di maturare opinioni che non siano etero-dirette facendosi di fatto «portavoce di una pubblica opinione che è in realtà l'eco di ritorno della propria voce».
Lo spettatore poco accorto difficilmente può opporsi all'ondata di banalità che, dallo schermo, si riversa impetuosa nella sua mente apatica di homo videns. La televisione manipola l'opinione pubblica diffondendo l'illusione che essa sia rappresentata dai sondaggi, che in realtà – oltre a essere chiaramente influenzati dal modo in cui viene posta la domanda agli intervistati – non sono altro che spazzatura, dal momento che mai viene accertata la competenza della persona interpellata, nemmeno per quanto attiene all'oggetto della domanda. Far passare come vox populi l'opinione strampalata di un «chiunque sia» contribuisce solo ad estendere il piattume culturale. Invece di inculcare nelle persone l'idea che sarebbe opportuno documentarsi prima di esprimersi su un qualunque argomento, la televisione sondaggio-dipendente lancia il messaggio che non solo è un diritto, ma è un bene che chiunque dica senza remore ciò che vuole su tutto ciò che vuole. Anche se è poco più di un analfabeta.
Il primato indiscusso dell'immagine sulla parola provoca inoltre alcuni effetti collaterali che interessano il processo di informazione dei cittadini. Un'informazione non «video-degna» viene inesorabilmente scartata: senza immagini non c'è notizia. I telegiornali privilegiano le notizie che consentano di inviare una troupe televisiva, favorendo un assurdo localismo e discriminando tutto ciò che non può essere reso con immagini. Possibile che i TG di oggi in tutto il mondo non trovino notizie più importanti delle tresche amorose di una valletta o di una casalinga che cucina una torta? L'immagine è diventata cioè un tiranno, che impone ad ogni costo di far vedere qualcosa. Il caso limite, al riguardo, è costituito dalle notizie di cronaca nera: che senso ha inviare una troupe televisiva a riprendere, a seconda dei casi, un parco, una casa, una scuola dove è avvenuto un delitto? Non sarebbe più semplice – ammesso che sia utile bombardare i telespettatori con servizi-show di questo tipo – leggere la notizia in studio?
Ma la sotto-informazione non è che uno dei problemi. La cultura televisiva è responsabile del disinteresse che spinge milioni di persone a ignorare i fatti veramente importanti che riguardano la collettività. Non è, infatti, una mera questione di gusti, nel senso che se la televisione è quasi tutta scadente è inevitabile che il pubblico si appassioni a programmi scadenti. Spesso poi la televisione non solo informa poco o nulla, ma informa male, cioè disinforma. Per un politico dire una balla colossale davanti a una telecamera, e magari ripeterla all'infinito per convincere i più polli che si tratti di cosa vera, è ormai diventato estremamente più conveniente che parlare di cose serie in un libro. L'importante è apparire, anche a costo di fare la figura dello scemo. Tanto il telespettatore è pigro, non ha la voglia e nemmeno la capacità di indagare per discernere il falso dal vero; e finisce, il più delle volte, per sostenere un volto rassicurante o premiare una persona simpatica, che «buca lo schermo». Quasi sempre, infine, il successo è garantito dall'eccentricità, dall'aggressività, poiché tutto in televisione è spettacolarizzato e deve risultare eccitante.
La conclusione di Sartori è allarmante: a suo parere il «proletariato del pensiero [...] ha penetrato man mano la scuola, ha rotto gli argini con la "rivoluzione culturale" del 1968 [...] e ha trovato il suo terreno di cultura ideale nella rivoluzione mass-mediale». Quello che ci resta, oggi, dopo decenni di stordimento mediatico non è altro che un «pensiero brodaglia», conseguenza inevitabile di «un clima culturale di melassa mentale» strenuamente difeso da «crescenti armate di azzerati mentali». Com'è possibile che un paese come l'Italia, che dovrebbe vivere di cultura, accetti supinamente una vergogna simile?
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