mercoledì 19 marzo 2014

«Solo», ovvero la vita appartata dell’uomo di lettere: una necessità, non una scelta

(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2014)

Scritto nel 1903, Solo non è, come il titolo potrebbe indurre a pensare – e come, del resto, è più volte stato scritto –, un inno alla solitudine come scelta consapevole di vita. Meno banalmente, il romanzo di August Strindberg è una sofferta riflessione sulla solitudine intesa come stato d'animo che certe persone, mentalmente predisposte, non possono eludere. Vivere in disparte, in altre parole, è per alcuni un'esigenza primaria, una condizione necessaria dell'esistenza, non certo la conseguenza di un atto volontaristico.
Il protagonista del romanzo, di cui non viene detto il nome, è uno scrittore vedovo sulla cinquantina che dopo dieci anni trascorsi in provincia fa ritorno alla sua città natale. La prima scena lo ritrae seduto al tavolo in compagnia di vecchi amici: tra frasi fatte e silenzi imbarazzanti, le ore trascorrono inutilmente, senza che nessuno riesca a trovare il modo per recuperare la spontanea intesa di un tempo. Nemmeno sui ricordi c'è sintonia: ognuno vorrebbe imporre la propria versione dei fatti, distorcendo gli avvenimenti del passato per conferire loro un preciso ed artefatto significato. Tutto, insomma, appare scontato e triste, anche perché «nessuno parlava più dell'avvenire, ma solo del tempo andato, per la semplice ragione che ci si trovava già in quel futuro che si era tanto sognato e intanto non si poteva più immaginarne un altro».
Deluso dagli incontri con i vecchi amici, il protagonista decide quindi di sospendere le visite al caffè, determinato a scoprire «il piacere immenso d'ascoltare il silenzio e di udire le sue nuove voci». La solitudine, in sostanza, è il solo rifugio che metta al riparo dall'ipocrisia di un mondo che non è altro che un'immensa Babele. È inutile illudersi: per sopravvivere, l'uomo di lettere ha bisogno di prendere le distanze dai suoi simili, pena l'annegamento in quel mare dell'indifferenziato che è la società moderna. Anche Schopenhauer sottolinea più volte questo concetto, per esempio quando – nei Parerga e paralipomena – scrive che «al mondo non c'è scelta che tra la solitudine e la comunità»; oppure quando, nella medesima opera, osserva che «nella solitudine ciascuno è ricondotto a sé: ciò che ha in se stesso affiora».
L'attività di scrittore del protagonista trae inoltre notevoli benefici dalla conduzione di una vita appartata: «Mi abituai anche – precisa infatti la voce narrante – a trasformare tutto ciò che vedevo e udivo, tutto: in casa, per strada, nella natura, e, mettendo in relazione quel che avvertivo col mio lavoro quotidiano, mi pareva d'incrementare la mia ricchezza e gli studi da me fatti in solitudine risultavano più preziosi di quelli che avevo a suo tempo condotto sugli uomini in società». Il personaggio – certo in buona sostanza autobiografico – di Strindberg ritiene pertanto che la solitudine possa costituire un'opportunità per indagare nell'intimo delle persone. Non è affatto vero, infatti, che egli non abbia contatti con il mondo. Per di più, quelli che ha sono incontaminati e genuini, non corrotti dalle formalità che la società esige da chiunque pretenda di vivere secondo i suoi schemi preconfezionati.
Durante lunghe passeggiate lungo i viali di Stoccolma, il protagonista di Solo è alla continua ricerca di richiami umani in grado di stimolare la sua curiosità. Osservando attentamente le persone, egli è persino in grado di delineare impietosi profili di quelle che considera «amicizie piuttosto impersonali» (le quali, in verità, altro non sono che incontri occasionali ripetuti nel tempo). Ai suoi occhi vigili non sfugge quindi il contegno grave di un maggiore in pensione che «ha deposto le armi» e, combattendo contro la noia, «va coraggiosamente incontro al suo destino»; o la frustrazione di un vecchio che sembra «aver assaggiato tutte le amarezze della vita nella loro forma più crudele»; e nemmeno, infine, l'assurda e maniacale attenzione che un'anziana donna dedica ai suoi due cani, probabilmente motivata da quella stessa solitudine che è privilegio di pochi saper apprezzare.
Dal punto di vista dell'uomo solo, il mondo appare popolato di persone misere, che si sforzano di condurre un'esistenza "normale" per non mostrare in pubblico la propria sofferenza. L'intera umanità è credibile quanto una caricatura, col risultato che i personaggi della realtà – il più delle volte patetici, come per esempio il droghiere vicino di casa del protagonista, che fallisce a causa del suo scarso senso degli affari – risultano inevitabilmente scontati rispetto a quelli della finzione letteraria, che i grandi scrittori come Balzac o Goethe hanno saputo rendere più autentici dei vivi. Ciò non toglie, però, che l'osservazione delle caricature costituisca un'esigenza imprescindibile per l'uomo di lettere: è questo, del resto, il senso delle lunghe passeggiate descritte minuziosamente da Strindberg. Il soggetto di Solo è infatti una sorta di sonnambulo attratto dalla vita altrui. La sua smisurata sensibilità lo rende «preda d'influenze esterne», di suggestioni che rendono possibile un continuo viaggio nel tempo dei ricordi e in uno spazio che rispecchia, trasfigurandolo, il paesaggio dell'anima. Accumulando immagini e sensazioni, lo scrittore fa il pieno di stimoli creativi in attesa di riversarli sulla pagina: «Quando però torno a casa e siedo al tavolino, allora vivo; e le energie che ho raccolto fuori dal flusso mutevole delle disarmonie, le utilizzo ora per i miei diversi fini. Io vivo e vivo le molte vite dei vari personaggi che delineo e sono felice coi felici, cattivo coi cattivi, buono coi buoni».
Il piacere dello scrivere e il senso di pace che accompagna il silenzio della riflessione sono dunque due aspetti fondamentali del vivere in disparte secondo Strindberg. Ma la solitudine non è mera contemplazione della vita altrui: per apprezzarla, bisogna saper accettare il presente («questo presente che è piaga, senza senso e senza meta, senza risposta come una domanda folle»), mantenendo salda la capacità di non farsi risucchiare nel vortice della disperazione. Il rischio, infatti, è che l'eccesso di vita interiore faccia «avvertire l'assenza del reale»; o, all'opposto, renda intollerabile il contatto, a volte forzato, con la miseria umana. È quanto sperimenta, del resto, il protagonista di Solo quando una sera d'estate monta su una carrozza pubblica e s'avventura tra le strade di una Stoccolma spopolata dei suoi abitanti benestanti: sotto gli occhi della gente dei sobborghi, che lo osserva incuriosita, egli si sente odiato, avverte la propria diversità come una condanna, sente il peso di quell'arroganza che accompagna chi esibisce compiaciuto il privilegio della solitudine. Non sempre, infatti, è facile convivere con se stessi. Osservando gli altri si finisce inevitabilmente per mettere a fuoco anche le proprie debolezze, facendo affiorare ansie e paure inconfessate (come accade al soggetto di Strindberg quando, a causa di un malinteso con la domestica, crede che il figlio, emigrato in America, abbia fatto improvvisamente ritorno a casa – e si trova quindi costretto ad interrogarsi a fondo su come sarebbe stato rincontrarlo, angosciato all'idea di dover fare sfoggio del lato più rassicurante di sé, come se tutte le inquietudini potessero essere cancellate con un rapido colpo di spugna).
La vera costante di tutto il romanzo è quindi l'idea che il confronto, seppur silenzioso, con il mondo esterno consenta di maturare una più approfondita conoscenza di sé. Al protagonista accade sovente durante le passeggiate, ma anche attraverso la lettura (e infatti Franco Perrelli ha notato che «leggendo Balzac, Strindberg legge, in realtà, se stesso e la piccola mistificazione continua allorché il discorso si sposta su Goethe, rispetto al quale scatta il consueto meccanismo dell'identificazione»), o la musica. Nelle ultime pagine di Solo egli si ritrova infatti nella vecchia casa della sua infanzia in compagnia di un musicista, suo conoscente: mentre questi suona il pianoforte, la mente del protagonista viaggia indietro nel tempo, finché non è attratta dalla scena – che intravede da una finestra – di una donna che si prende cura, a tavola, di un bimbo non suo (il nipote, secondo le congetture dell'occulto osservatore). Alcuni mesi dopo il musicista lo informa di essersi fidanzato proprio con quella donna. E quando la voce narrante (Strindberg?) assiste nuovamente alla medesima scena con il bambino, con l'aggiunta però del nuovo membro della famiglia, prova un senso di profonda pace interiore nel contemplarne l'armonia. È questo, di fatto, il preludio alla piena accettazione di sé come uomo necessariamente solo: «E lasciai quella stanza dove avevo penato durante la mia giovinezza, contento d'esser giunto dov'ero, ancora in grado di rallegrarmi della felicità altrui senza alcun rammarico, nostalgia o false inquietudini, e tornai a casa alla mia solitudine, al mio lavoro, alle mie lotte».

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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