(articolo apparso su Prima Pagina del 15 marzo 2014)
Scritto nel 1903, Solo
non è, come il titolo potrebbe indurre a pensare – e come, del resto, è più
volte stato scritto –, un inno alla solitudine come scelta consapevole di vita.
Meno banalmente, il romanzo di August Strindberg è una sofferta
riflessione sulla solitudine intesa come stato d'animo che certe persone,
mentalmente predisposte, non possono eludere. Vivere in disparte, in altre parole,
è per alcuni un'esigenza primaria, una condizione necessaria dell'esistenza,
non certo la conseguenza di un atto volontaristico.
Il protagonista del romanzo, di cui non viene detto il
nome, è uno scrittore vedovo sulla cinquantina che dopo dieci anni trascorsi in
provincia fa ritorno alla sua città natale. La prima scena lo ritrae seduto al
tavolo in compagnia di vecchi amici: tra frasi fatte e silenzi imbarazzanti, le
ore trascorrono inutilmente, senza che nessuno riesca a trovare il modo per
recuperare la spontanea intesa di un tempo. Nemmeno sui ricordi c'è sintonia:
ognuno vorrebbe imporre la propria versione dei fatti, distorcendo gli
avvenimenti del passato per conferire loro un preciso ed artefatto significato.
Tutto, insomma, appare scontato e triste, anche perché «nessuno parlava più
dell'avvenire, ma solo del tempo andato, per la semplice ragione che ci si
trovava già in quel futuro che si era tanto sognato e intanto non si poteva più
immaginarne un altro».
Deluso dagli incontri con i vecchi
amici, il protagonista decide quindi di sospendere le visite al caffè,
determinato a scoprire «il piacere immenso d'ascoltare il silenzio e di udire
le sue nuove voci». La solitudine, in sostanza, è il solo rifugio che metta al
riparo dall'ipocrisia di un mondo che non è altro che un'immensa Babele. È
inutile illudersi: per sopravvivere, l'uomo di lettere ha bisogno di prendere
le distanze dai suoi simili, pena l'annegamento in quel mare
dell'indifferenziato che è la società moderna. Anche Schopenhauer sottolinea
più volte questo concetto, per esempio quando – nei Parerga e paralipomena
– scrive che «al mondo non c'è scelta che tra la solitudine e la comunità»;
oppure quando, nella medesima opera, osserva che «nella solitudine ciascuno è ricondotto
a sé: ciò che ha in se stesso affiora».
L'attività di scrittore del
protagonista trae inoltre notevoli benefici dalla conduzione di una vita
appartata: «Mi abituai anche – precisa infatti la voce narrante – a trasformare
tutto ciò che vedevo e udivo, tutto: in casa, per strada, nella natura, e,
mettendo in relazione quel che avvertivo col mio lavoro quotidiano, mi pareva d'incrementare
la mia ricchezza e gli studi da me fatti in solitudine risultavano più preziosi
di quelli che avevo a suo tempo condotto sugli uomini in società». Il
personaggio – certo in buona sostanza autobiografico – di Strindberg ritiene
pertanto che la solitudine possa costituire un'opportunità per indagare
nell'intimo delle persone. Non è affatto vero, infatti, che egli non abbia
contatti con il mondo. Per di più, quelli che ha sono incontaminati e genuini,
non corrotti dalle formalità che la società esige da chiunque pretenda di
vivere secondo i suoi schemi preconfezionati.
Durante lunghe passeggiate lungo i
viali di Stoccolma, il protagonista di Solo è alla continua ricerca di richiami
umani in grado di stimolare la sua curiosità. Osservando attentamente le persone,
egli è persino in grado di delineare impietosi profili di quelle che considera
«amicizie piuttosto impersonali» (le quali, in verità, altro non sono che
incontri occasionali ripetuti nel tempo). Ai suoi occhi vigili non sfugge
quindi il contegno grave di un maggiore in pensione che «ha deposto le armi» e,
combattendo contro la noia, «va coraggiosamente incontro al suo destino»; o la
frustrazione di un vecchio che sembra «aver assaggiato tutte le amarezze della
vita nella loro forma più crudele»; e nemmeno, infine, l'assurda e maniacale attenzione
che un'anziana donna dedica ai suoi due cani, probabilmente motivata da quella
stessa solitudine che è privilegio di pochi saper apprezzare.
Dal punto di vista dell'uomo solo, il
mondo appare popolato di persone misere, che si sforzano di condurre
un'esistenza "normale" per non mostrare in pubblico la propria
sofferenza. L'intera umanità è credibile quanto una caricatura, col risultato
che i personaggi della realtà – il più delle volte patetici, come per esempio
il droghiere vicino di casa del protagonista, che fallisce a causa del suo
scarso senso degli affari – risultano inevitabilmente scontati rispetto a
quelli della finzione letteraria, che i grandi scrittori come Balzac o Goethe hanno
saputo rendere più autentici dei vivi. Ciò non toglie, però, che l'osservazione
delle caricature costituisca un'esigenza imprescindibile per l'uomo di lettere:
è questo, del resto, il senso delle lunghe passeggiate descritte minuziosamente
da Strindberg. Il soggetto di Solo è infatti una sorta di sonnambulo
attratto dalla vita altrui. La sua smisurata sensibilità lo rende «preda
d'influenze esterne», di suggestioni che rendono possibile un continuo viaggio
nel tempo dei ricordi e in uno spazio che rispecchia, trasfigurandolo, il
paesaggio dell'anima. Accumulando immagini e sensazioni, lo scrittore fa il
pieno di stimoli creativi in attesa di riversarli sulla pagina: «Quando però
torno a casa e siedo al tavolino, allora vivo; e le energie che ho raccolto
fuori dal flusso mutevole delle disarmonie, le utilizzo ora per i miei diversi
fini. Io vivo e vivo le molte vite dei vari personaggi che delineo e sono
felice coi felici, cattivo coi cattivi, buono coi buoni».
Il piacere dello scrivere e il senso
di pace che accompagna il silenzio della riflessione sono dunque due aspetti
fondamentali del vivere in disparte secondo Strindberg. Ma la solitudine non è
mera contemplazione della vita altrui: per apprezzarla, bisogna saper accettare
il presente («questo presente che è piaga, senza senso e senza meta, senza
risposta come una domanda folle»), mantenendo salda la capacità di non farsi
risucchiare nel vortice della disperazione. Il rischio, infatti, è che
l'eccesso di vita interiore faccia «avvertire l'assenza del reale»; o,
all'opposto, renda intollerabile il contatto, a volte forzato, con la miseria
umana. È quanto sperimenta, del resto, il protagonista di Solo quando una sera d'estate monta su una carrozza pubblica e s'avventura
tra le strade di una Stoccolma spopolata dei suoi abitanti benestanti: sotto
gli occhi della gente dei sobborghi, che lo osserva incuriosita, egli si sente
odiato, avverte la propria diversità come una condanna, sente il peso di
quell'arroganza che accompagna chi esibisce compiaciuto il privilegio della
solitudine. Non sempre, infatti, è facile convivere con se stessi. Osservando
gli altri si finisce inevitabilmente per mettere a fuoco anche le proprie
debolezze, facendo affiorare ansie e paure inconfessate (come accade al
soggetto di Strindberg quando, a causa di un malinteso con la domestica, crede
che il figlio, emigrato in America, abbia fatto improvvisamente ritorno a casa
– e si trova quindi costretto ad interrogarsi a fondo su come sarebbe stato
rincontrarlo, angosciato all'idea di dover fare sfoggio del lato più
rassicurante di sé, come se tutte le inquietudini potessero essere cancellate
con un rapido colpo di spugna).
La vera costante di tutto il romanzo
è quindi l'idea che il confronto, seppur silenzioso, con il mondo esterno
consenta di maturare una più approfondita conoscenza di sé. Al protagonista accade
sovente durante le passeggiate, ma anche attraverso la lettura (e infatti
Franco Perrelli ha notato che «leggendo Balzac, Strindberg legge, in realtà, se stesso e la piccola mistificazione continua
allorché il discorso si sposta su Goethe, rispetto al quale scatta il consueto
meccanismo dell'identificazione»), o la musica. Nelle ultime pagine di Solo egli si ritrova infatti nella
vecchia casa della sua infanzia in compagnia di un musicista, suo conoscente:
mentre questi suona il pianoforte, la mente del protagonista viaggia indietro
nel tempo, finché non è attratta dalla scena – che intravede da una finestra – di
una donna che si prende cura, a tavola, di un bimbo non suo (il nipote, secondo
le congetture dell'occulto osservatore). Alcuni mesi dopo il musicista lo
informa di essersi fidanzato proprio con quella donna. E quando la voce
narrante (Strindberg?) assiste nuovamente alla medesima scena con il bambino,
con l'aggiunta però del nuovo membro della famiglia, prova un senso di profonda
pace interiore nel contemplarne l'armonia. È questo, di fatto, il preludio alla
piena accettazione di sé come uomo necessariamente solo: «E lasciai quella
stanza dove avevo penato durante la mia giovinezza, contento d'esser giunto
dov'ero, ancora in grado di rallegrarmi della felicità altrui senza alcun
rammarico, nostalgia o false inquietudini, e tornai a casa alla mia solitudine,
al mio lavoro, alle mie lotte».
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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