lunedì 29 settembre 2014

«Autostrada della Cisa»: l’enigma della morte e la presenza impalpabile (ma reale) del vuoto

(articolo apparso su Prima Pagina del 27 settembre 2014)

Autostrada della Cisa

Tempo dieci anni, nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).

Oggi a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita un cencio dal ciglio di un dirupo,
spegne un giorno già spento, e addio.

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.

Parla così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di Mantova una Tenochtitlàn.

Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.

Ancora non lo sai
– sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?

Vittorio Sereni è un autore probabilmente non troppo conosciuto. A scuola, se va bene, i suoi componimenti (non più di due o tre, peraltro) sono letti dagli studenti dell’ultimo anno, per lo più a conclusione del secondo quadrimestre, giusto per ingrossare il programma d’esame. Non è, cioè, un cosiddetto grande classico della letteratura, uno di quelli – per intendersi – da sapere a tutti i costi per evitare brutte sorprese in sede d’interrogazione.
Vittorio Sereni, però, è un poeta estremamente affascinante: colto, non troppo accessibile, a tratti persino misterioso. I suoi versi sembrano condurre in un mondo a metà fra il sonno e la veglia, popolato da figure spettrali a tratti suadenti, a tratti inquietanti. Sereni non è – non c’è dubbio – un autore “facile”, ma è certamente uno scrittore che vale la pena leggere. Il componimento che qui si presenta – Autostrada della Cisa, tratto da Stella variabile, l’ultima sua raccolta – confermerà con ogni probabilità questa impressione: si tratta cioè di un testo complesso, infarcito di reminiscenze letterarie, che tuttavia merita grande considerazione, se non altro per l’originalità delle tematiche affrontate (basti pensare al concetto della presenza ingombrante del vuoto, dell’assenza, di coloro, cioè, che non ci sono più ma è come se non se ne fossero mai andati).
Leggiamo dunque la poesia di Sereni, procedendo lentamente commentando strofa per strofa:
Tempo dieci anni, nemmeno / prima che rimuoia in me mio padre / (con malagrazia fu calato giù / e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Come si vede, il linguaggio è colloquiale e prosastico, a dispetto della gravità dell’argomento. Sereni fa subito una previsione: entro dieci anni, la morte porrà fine ai suoi giorni. Il trapasso è accostato alla figura del padre, evidentemente una persona fondamentale per il poeta, come si evince dal fatto che per quest’ultimo il decesso sarà equiparabile a una seconda morte dell’amato genitore. Tra parentesi, Sereni descrive cos’ha significato, per lui, dire addio al padre. Semplicemente, questi fu calato giù (ovvero nella tomba), in un luogo inaccessibile e reso impenetrabile da una fitta nebbia, simbolo della barriera invalicabile che separa i vivi dai defunti. La morte, in altre parole, è per Sereni la fine di tutto (un banco di nebbia ci divise per sempre): non c’è speranza che esista un aldilà nel quale ricongiungersi con i propri cari.
Oggi a un chilometro dal passo / una capelluta scarmigliata erinni / agita un cencio dal ciglio di un dirupo, / spegne un giorno già spento, e addio.
Il passo è quello della Cisa, richiamato dal titolo, che il poeta sta percorrendo in automobile. È un tratto appenninico che collega Parma a La Spezia, e dunque, idealmente, un valico che mette in contatto due versanti di un rilievo montuoso, l’uno rappresentante la vita, l’altro la morte. Sereni vede una donna che agita un cencio dal ciglio di un dirupo: si tratta probabilmente di una contadina che cerca di attirare su di sé l’attenzione dei passanti per vendere qualche prodotto della terra; ma il poeta non può fare a meno di trasfigurarla, e scorge in lei l’immagine mitica dell’erinni, ovvero di quella divinità della mitologia greca – con lunghi capelli arruffati (scarmigliata), come vuole l’iconografia classica – che abita gli inferi e perseguita, per vendetta, i mortali che si siano macchiati di una grave colpa). L’apparizione di un essere mostruoso si collega al presagio di morte della prima strofa: l’erinni, cioè, annuncia al poeta che la sua fine è vicina. Ma il suo messaggio non è per nulla inatteso: esso non fa altro che spegnere un giorno già spento, privo, cioè, di vitalità.
Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno – / sappilo che non finisce qui, / di momento in momento credici a quell’altra vita, / di costa in costa aspettala e verrà / come di là dal valico un ritorno d’estate.
 La voce che si rivolge al poeta sembra più che altro interiore: non proviene, cioè, da un amico o da un conoscente. Egli ascolta il richiamo della speranza, che tenta disperatamente di farsi sentire prospettando l’esistenza di una seconda, autentica vita dopo la morte. Speranza che – scrive Sereni – un uomo segue di costa in costa (idealmente percorrendo i tornanti di un’autostrada), aspettandosi improvvisamente che una luce intensa rischiari l’orizzonte, come un inaspettato ritorno d’estate oltre il monte.
Parla così la recidiva speranza, morde / in un’anguria la polpa dell’estate, / vede laggiù quegli alberi perpetuare / ognuno in sé la sua ninfa / e dietro la raggera degli echi e dei miraggi / nella piana assetata il palpito di un lago / fare di Mantova una Tenochtitlàn.
La speranza è però definita recidiva, con un termine abitualmente utilizzato per indicare il reiterarsi di un reato: essa cioè accompagna il poeta come un vizio, non gli dà tregua. Sereni la rappresenta, personificandola, mentre addenta la polpa di un’anguria (forse acquistata dall’erinni-contadina), un tipico frutto estivo che diviene simbolo della vitalità e della pienezza. Tutt’intorno, la natura si anima a formare un paesaggio affollato di creature mitiche (come le ninfe degli alberi), mentre la pianura Padana (piana assetata) si trasforma idealmente in un immenso lago, tanto che Mantova (che per metonimia indica l’intera regione) si trasfigura in un’immaginaria Tenochtitlàn (nome precolombiano di Città del Messico) incantata.
Di tunnel in tunnel di abbagliamento in cecità / tendo una mano. Mi ritorna vuota. / Allungo un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Attraversando i vari tunnel dell’autostrada (e quindi passando continuamente dalla luce abbagliante del giorno all’oscurità della galleria), Sereni ha l’impressione di rivivere la scena mitica di Enea quando, sceso agli inferi, tenta invano di abbracciare l’ombra del padre Anchise. Il poeta sente di avere bisogno di un contatto con chi non c’è più, ma ogni suo tentativo di restare aggrappato agli affetti perduti risulta vano (tende una mano e questa gli ritorna vuota; allunga un braccio, ma stringe una spalla d’aria).
Ancora non lo sai / – sibila nel frastuono delle volte / la sibilla, quella / che sempre più ha voglia di morire – / non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?
Il componimento si chiude con un’ultima immagine tratta dalla mitologia classica: attraversando le volte dei tunnel, Sereni ha l’impressione di entrare nella grotta della Sibilla per un vaticinio. Questa però (che sempre più ha voglia di morire, poiché, secondo il mito, aveva ricevuto in dono da Apollo una lunga vita ma era stata privata della giovinezza) dà un responso crudele: il vuoto, ossia il nulla che il poeta stringe nel tentativo di riabbracciare i suoi cari defunti, è la cosa più autentica che un uomo avventuratosi alla ricerca di un senso della vita e della morte possa trovare. Il che, in altre parole, significa che ciò che manca è spesso più presente di tutto quello che tocchiamo con mano.
L’assenza riveste un ruolo decisivo nella poesia di Sereni. Di fronte ad un’esistenza insoddisfacente, persino patetica se confrontata con le aspirazioni umane, il vuoto – ovvero ciò che sfugge alla realtà, ciò che va al di là delle nostre capacità di comprensione – diviene la sola cosa in grado di tenerci in vita. Il vuoto, afferma Sereni, ha un colore indelebile poiché è una sensazione cui nessuno può sfuggire: esso è ciò che va riempito, nel tentativo di trovare un senso che giustifichi una realtà così deludente. È come il carburante che alimenta il motore della speranza, di una speranza recidiva, ingannevole, ma pur sempre indispensabile per andare avanti nella vita, per tenere duro a dispetto di tutto. Forse, a ben vedere, il vuoto è ciò che ci dice chi siamo e indirizza la nostra esistenza verso una meta. Per conoscersi, occorre cercare dentro di sé. Anche se – inutile illudersi – l’assente è (per definizione) irraggiungibile e la ricerca – affannosa, disperata, ma imprescindibile – è tutto ciò che ci resta.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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