martedì 23 settembre 2014

«All’apparir del vero tu, misera, cadesti»: «A Silvia» e la morte, inevitabile, della «lacrimata speme»

(articolo apparso su Prima Pagina del 20 settembre 2014)

Per il testo del canto consultare:
http://www.poesieitaliane.it/poesie_italiane_p_01.php?idt01=1

Composto nell’aprile del 1828, A Silvia è probabilmente il canto più celebre di Giacomo Leopardi dopo L’infinito, e rappresenta senza dubbio uno dei momenti più alti della poesia dello scrittore di Recanati. Il componimento fa riferimento ad una ragazza morta nella prima giovinezza, individuabile, secondo diversi indizi sparsi nella produzione leopardiana, in Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi morta di tisi nel 1818, appena ventunenne.
Il testo, che consta di 63 versi suddivisi in sei strofe, è piuttosto conosciuto e, per questioni di spazio, non può essere riportato per intero in questa sede. Per una sua corretta comprensione si proporrà qui di seguito una parafrasi, anche se si consiglia caldamente una preliminare lettura della lirica, facilmente rintracciabile in qualsiasi storia della letteratura. A livello metodologico, è bene precisare che si è deciso di inserire tra parentesi tonde il numero della strofa e tra parentesi quadre alcuni chiarimenti lessicali.
(1) Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita [vita mortale, dice Leopardi, rafforzando con l’aggettivo pleonastico il senso di fugacità dell’esistenza], quando la bellezza risplendeva nei tuoi occhi gioiosi e sfuggenti e tu, serena e piena di pensieri, varcavi la soglia della giovinezza? (2) Il tuo canto assiduo, mentre sedevi intenta alla tessitura [opre femminili], paga del futuro incerto che ti figuravi nella mente [l’avvenire, cioè, è un’immagine piacevole proprio perché confuso e indeterminato], faceva risuonare le stanze silenziose e le vie tutt’intorno. Era il maggio odoroso [per via degli alberi in fiore]: e tu eri solita trascorrere le giornate in questo modo. (3) Io, tralasciando per breve tempo gli studi poetici e filologici [studi leggiadri e sudate carte corrisponderebbero, secondo alcuni interpreti, a questi due ambiti], in compagnia dei quali ho consumato i miei anni giovanili e le mie migliori energie, dall’alto dei balconi della mia casa paterna tendevo l’orecchio per ascoltare il suono della tua voce (4) e il rumore che faceva la tua mano mentre lavoravi con fatica sulla tela. Ammiravo il cielo sereno, le vie soleggiate e gli orti, e da una parte il mare da lontano, dall’altra il monte. Non ci sono parole per spiegare cosa provavo. (5) Che pensieri dolci, che speranze, che emozioni, o Silvia mia! Come ci apparivano lieti, allora, la vita umana e il destino! Quando mi torna in mente tutta questa speranza, un moto dell’animo che unisce amara delusione e sconsolato rimpianto mi opprime, e torno a dolermi della mia infelicità. O natura, o natura, perché non mantieni, nella maturità, quanto prometti durante la giovinezza? Perché inganni a tal punto le tue creature? (6) Tu, cara, prima che l’inverno facesse seccare l’erba, colpita e infine stroncata da un male oscuro [e quindi incurabile], morivi. E non vedevi il compimento della tua giovinezza [il fior degli anni tuoi]; non ti lusingava il cuore ricevere i graditi complimenti rivolti ora ai tuoi capelli castani, ora ai tuoi timidi occhi che innamorano [nello Zibaldone Leopardi annota che innamorato può voler dire proprio «che innamora»]; e nemmeno le tue amiche parlavano con te d’amore durante i giorni di festa. (6) Anche la mia dolce speranza sarebbe venuta meno di lì a poco: anche alla mia vita [agli anni miei] il destino avverso [i fati] negò la giovinezza. Ahi, come sei svanita cara compagna dei miei anni giovanili, mia compianta speranza! È questo il mondo sognato e vagheggiato [sottinteso: in gioventù]? sono queste le gioie, i sentimenti, le attività operose, gli avvenimenti di cui tanto a lungo parlammo insieme? È questo il destino dell’umanità? Con il rivelarsi della reale natura delle cose, tu [cioè la lacrimata speme del verso 55], misera, peristi: e con la mano [qui la speranza è personificata] indicavi in lontananza la fredda morte ed una tomba desolata.
A proposito di A Silvia, l’opinione più diffusa, espressa più che altro da parte di chi conosce il componimento solo superficialmente, è che si tratti di una sorta di lamento per l’impossibilità, da parte del poeta, di conquistare il cuore della donna amata. Ebbene: come è auspicabile risulti evidente da quanto scritto finora, Leopardi parla di tutto meno che dell’infatuazione per una ragazza. La lirica, infatti, è tutta incentrata su un parallelismo tra la giovinezza spensierata di Silvia e la speranza del poeta: così come la prima svanisce al sopraggiungere della malattia, la seconda si dissolve «all’apparir del vero».
Vale la pena leggere un appunto dello Zibaldone, scritto poche settimane dopo la stesura della lirica: «Una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci e salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta, quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria di innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure e dei patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità».
È questa impressione, in definitiva, che spinge Leopardi a soffermarsi sul tormento che deriva dalla constatazione che il senso di divinità connesso con la giovinezza di Silvia è destinato, inesorabilmente, a perire. Il che impone di fare chiarezza su un aspetto: quando si afferma – come spesso si sente dire – che Leopardi è il poeta del nulla, della negazione, del pessimismo rinunciatario, non si tiene conto del fatto che, in realtà, lo scrittore di Recanati è animato da un fortissimo bisogno di pienezza vitale, dalla necessità assoluta di assaporare un’esistenza autentica, energica e appagante. Il pessimismo, in altre parole, non è una premessa, ma una conseguenza della sua riflessione, nel senso che all’origine dello sconforto è la frustrazione per l’impossibilità di raggiungere la felicità. Il nulla è pertanto una drammatica conquista della ragione (che va alla ricerca del vero, scoprendo l’inesorabile pochezza della realtà), non un irrazionale punto di partenza.
Questo spiega, inoltre, perché il pessimismo di Leopardi si manifesti come ribellione alla natura-matrigna e non come lamentoso abbandono. Cos’altro sono, infatti, le ripetute domande dell’ultima strofa, se non un feroce e straziante grido di dolore emesso da un uomo che si sente sconfitto ma non vuole rassegnarsi a smettere di combattere? La poesia di Leopardi, in questo senso, è virile. Giacché se anche la speranza, al pari di Silvia, è destinata a morire, scontrandosi con l’arido vero, ciò non toglie che l’uomo – pur dovendo fare i conti giorno dopo giorno con «la fredda morte» che incombe – debba restare in piedi e tenere duro. Altro che poeta della rassegnazione: Leopardi, a ben vedere, è il poeta della tenacia, della pervicacia e del coraggio!
Il fatto di ostinarsi a vivere una vita tutta interiore, separata dal resto del mondo e dagli uomini non è, infatti, per forza di cose una debolezza. Leopardi sa, del resto, di non avere alternative: la sua mente brillante lo spinge necessariamente a cercare il vero, a smascherare gli inganni. «È come un vizio sottile, e più penso più mi ritrovo questo vuoto immenso», direbbe Francesco Guccini – attento studioso dell’opera leopardiana –, che così si esprime nel finale della sua Canzone per Piero. Il poeta, in altre parole, è un acuto osservatore, ma come tutti gli osservatori se ne sta in disparte, chiuso nella propria stanza. Egli osserva la realtà attraverso la sua finestra (simbolo del confine che mette in contatto mondo interiore ed esteriore), e non può fare a meno di ricorrere al doppio filtro dell’immaginazione e della memoria (con la prima che spesso si alimenta della seconda). In un certo senso, è proprio la realtà virtuale la componente essenziale della poesia, secondo quella che, citando L’infinito, potrebbe definirsi la logica della siepe: una realtà sublimata, destinata a cadere miseramente sotto i colpi dell’indagine razionale, che abbatte tutto ciò che è fantasia per far emergere l’arido vero.  

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

Nessun commento:

Posta un commento