giovedì 18 settembre 2014

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»: l’uomo e il tremendo assillo della fine

(articolo apparso su Prima Pagina del 13 settembre 2014)

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi 
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Rileggendo Verrà la morte e avrà i tuoi occhi di Cesare Pavese le prime immagini che mi sono venute in mente sono quelle della scena conclusiva della serie tv americana Six feet under, creata dal pluripremiato regista Alan Ball (l’autore della bellissima sceneggiatura di American Beauty). Six feet under è la storia di una famiglia di impresari funebri (i Fisher) e tratta, in sostanza, del difficile rapporto che essi sono costretti ad instaurare quotidianamente con la morte. Morte che, in definitiva, è la vera protagonista dell’intera serie, il cui titolo allude per l’appunto alla profondità (sei piedi, ovvero circa un metro e ottanta) a cui si interrano le bare negli Stati Uniti.
Tornando alla poesia di Pavese, dicevo che essa mi ha ricordato la scena finale di quello che, a mio avviso, è un autentico capolavoro della televisione. Six feet under si conclude con la partenza della figlia minore dei coniugi Fisher, Claire, che sale in macchina e si avvia verso un futuro tutto da scoprire, lasciandosi alle spalle i parenti più stretti e una vita, costantemente a contatto con la sofferenza altrui, che non fa per lei. Sulle note della bellissima Breathe me di Sia, Claire si allontana da Los Angeles percorrendo una di quelle tipiche, infinite strade americane: così lunga che sembra condurre in un altro mondo, in un’altra dimensione. Mentre la macchina divora l’asfalto rovente, scorrono le immagini di ripetuti flash forward che colgono l’attimo esatto della dipartita dei membri della famiglia Fisher. Ogni morte è alternata con un primo piano di Claire, fino al decesso di quest’ultima, ultracentenaria, in completa solitudine su un letto d’ospedale. Infine, l’ultima immagine è un primissimo piano della stessa Claire nel tempo presente, gli occhi fissi sulla telecamera con l’inquadratura che, progressivamente, si stringe.
Tra tutti gli spunti possibili, c’è un elemento decisivo nella ricostruzione di Alan Ball, ed è che la morte – vale per tutti i membri della famiglia Fisher e per i loro congiunti – si accompagna ad uno sguardo. In Six feet under, infatti, si muore dopo aver visto, per un istante, il volto di una persona cara, il più delle volte della persona alla quale si è dedicata un’intera vita. Il marito, la moglie, il padre, la madre o il figlio di chi è giunto al termine dell’esperienza terrena diventano così messaggeri di morte nel momento del trapasso: sono angeli che prendono per mano il defunto e lo accompagnano nell’aldilà. Ecco allora – il lettore perdonerà questa lunga digressione incentrata su un’impressione personale – che ha senso accostare Verrà la morte e avrà i tuoi occhi a Six feet under: per entrambi, la morte è la fine di tutto condensata in un flash, cristallizzata in un’immagine.
Ma passiamo, ora, alla poesia di Pavese. L’autore de La luna e i falò la scrisse nel 1950, poche settimane prima di togliersi la vita. Si tratta del componimento – pubblicato postumo – che dà il titolo all’ultima sua raccolta poetica, ed è dedicato a Costance Dowling, l’attrice americana con la quale lo scrittore piemontese ebbe una travagliata relazione amorosa. Il lessico, la sintassi e la forma sono estremamente lineari, e non necessitano di parafrasi. Pavese, del resto, non amava gli artifici retorici, come scrisse chiaramente in un passo de Il mestiere di vivere («La poesia deve dire qualcosa e quindi è inutile che violi la logica e la sintassi, modi universali del dire»).
Per una corretta comprensione del testo, può essere utile soffermarsi brevemente su singole unità tematiche, scorrendo lentamente i diciannove versi del componimento. Isoleremo, pertanto, i singoli passi, facendo seguire ad ogni citazione un rapido commento.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo.
La morte, dunque, giunge per il poeta con le sembianze della donna amata: non sembra una minaccia, più che altro è qualcosa di ineluttabile, di familiare. La morte, infatti, è presente nella vita di tutti i giorni, in ogni istante, in ogni emozione o sentimento, persino nel sonno. È come un vizio assurdo – dice Pavese –, poiché, di per sé, è illogico che l’uomo cerchi il senso della vita con l’assillo del suo contrario, ossia la fine dell’esistenza. La morte è sorda: non ci sente, non ascolta le nostre disperate richieste di chiarimento: di fronte ad essa siamo tutti impotenti. La morte è presente ovunque, ma non ha né luogo né tempo: è come un vecchio rimorso che affiora quando meno te lo aspetti. È una presenza incombente che non dà tregua, che toglie il respiro.
I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio.
Gli occhi della donna amata – che annunciano la morte, un po’ come quelli di Claire in Six feet under – saranno portatori di un messaggio scontato e per lungo tempo atteso (vano, dice Pavese). Lo sguardo di Costance, catturato nell’istante del trapasso, esprimerà l’inutile desiderio di gridare. Ma non si udirà alcun suono: la morte strappa un’anima alla vita nel più totale silenzio, dal momento che nel nulla non v’è rumore.
Gli occhi, messaggeri di morte, della donna sono gli stessi ch’ella vede ogni mattina riflessi nello specchio: non sono, cioè, occhi reali, ma inconsistenti. Sono niente più di un’immagine, uno spettro – novello Caronte – che prenderà il poeta per mano nel momento della sua dipartita. Pavese rovescia cioè, attraverso l’immagine dello specchio, la tradizione letteraria secondo la quale gli occhi sono il simbolo della vita e dell’espressività: nel suo caso, gli occhi, riflessi, di Costance sono il segnale supremo che indica la fine di tutto.
O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla.
Nell’istante della morte, realizzeremo che la speranza – ciò che ha reso possibile la nostra vita, giacché non sarebbe tollerabile un’esistenza senza promesse di un futuro nel quale collocare quella felicità che non riusciamo a toccare con mano nel presente – non è stata altro che un’illusione.
Per tutti la morte ha uno sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti.
Sono qui riprese le tematiche introdotte nella prima strofa. Per chiunque, dice Pavese, la morte ha uno sguardo, verrà cioè sotto forma di immagine, che ci abbaglierà come un improvviso flash. Di nuovo, la morte è associata all’idea del vizio: in vita, non si può non pensare all’aldilà, a cosa ci sarà dopo, se qualcosa ci sarà, così come un fumatore incallito non può smettere di fumare, o un alcolizzato di bere. Solo con la morte si riuscirà a vincere il vizio della riflessione, semplicemente perché, dopo la vita, non ci sarà più nulla su cui riflettere. Morire, perciò, sarà come vedere riflesso nello specchio un volto che si credeva perduto per sempre: il volto della spensieratezza, ma anche – volendo – il volto del messaggero che si manifesta per annunciare l’avvenuto trapasso. Dinanzi ad esso, non ci sarà più bisogno di parole: l’immagine della morte ci parlerà senza aprire bocca e ci trascinerà nel gorgo dove tutto finisce, dove la vita si spegne, nel più assoluto silenzio.
Per Pavese, dunque, la morte è un semplice passaggio, che si compie con naturalezza. Tutto nasce, si consuma e finisce: e se la vita non è altro che un progressivo, drammatico avvicinarsi della fine, la prospettiva di varcare le colonne d’Ercole dell’aldilà facendosi accompagnare da un volto familiare somiglia più a una liberazione che a una sconfitta. Tutti ce ne andremo con un’immagine, che sarà l’ultima cosa che vedremo. Quell’immagine racchiuderà l’intera esperienza terrena, sarà ciò che ci dirà perché abbiamo vissuto e cosa è stata, in sostanza, la nostra vita. Non importa sapere cosa c’è dopo, nel senso che è inutile insistere con il vizio dell’indagine razionale applicata a ciò che non sarà mai spiegabile. La morte sarà il compimento di tutto: finalmente, giunti a quel punto, sapremo se c’è un dopo, o se tutto svanirà nel nulla. Ad ogni modo, comunque andrà, vedere gli occhi della morte nelle sembianze della donna amata (o di una persona cara) sarà una liberazione dai tormenti dell’esistenza. Everyone’s waiting, è il messaggio di Alan Ball, che così intitola l’ultimo episodio di Six feet under: ognuno vive nell’attesa (dell’inevitabile).    

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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