giovedì 11 settembre 2014

«A Cesena»: il vano tentativo di ignorare il grigiore della quotidianità

(articolo apparso su Prima Pagina del 6 settembre 2014)

Marino Moretti è un autore forse non troppo noto, per lo più letto da qualche appassionato di letteratura o da studenti di liceo e università. Della sua vita non c’è molto da dire: nacque e morì a Cesenatico (1885-1979), visse per qualche tempo a Firenze e scrisse numerose raccolte poetiche e romanzi, in gran parte sconosciuti. In pratica, a salvarsi dall’oblio che abbraccia l’intera sua produzione è un unico, celebre componimento, presente pressoché in tutte le storie della letteratura: A Cesena. Si tratta, effettivamente, di un testo tra i più belli della corrente crepuscolare: in tutto, diciassette terzine in rima e un endecasillabo conclusivo caratterizzati da un andamento prosastico perfettamente in sintonia con il grigiore della mediocre quotidianità che fa da sfondo all’intera vicenda. Di fatto, il contenuto si riassume in poche parole: il poeta, recatosi a Cesena per far visita alla sorella da poco sposa, intuisce immediatamente che il matrimonio non l’ha resa felice. Subentrano così i ricordi dell’infanzia, in un clima di angoscia e malinconia.
Leggiamo dunque i versi di Moretti, i quali, molto semplici, non necessitano di parafrasi (ci si limiterà, pertanto, ad inserire tra parentesi quadre alcune brevi note chiarificatrici):
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena. // Batte la pioggia il grigio borgo, lava / la faccia [la facciata] della casa senza posa [senza sosta], / schiuma a piè delle gronde come bava. // Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse / triste è per te la pioggia cittadina, / il nuovo amore che non ti soccorse [che non ti ha portato la felicità sperata], // il sogno che non ti avvizzì [che non ti ha invecchiato, che non si mantiene vivo, cioè, nella nuova condizione di sposa], sorella / che guardi me con occhio che s’ostina / a dirmi bella la tua vita, bella, // bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora / o sposa, io vedo tuo marito, sento, / oggi, a chi dici mamma, a una signora [la suocera]; // so che quell’uomo è il suocero dabbene [aggettivo che sottolinea la moralità, formale più che sostanziale e tipicamente piccolo borghese, del nuovo ambiente familiare della sorella] / che dopo il lauto pasto è sonnolento, / il babbo che ti vuole un po’ di bene. // «Mamma!» tu chiami, e le sorridi e vuoi / ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida, / che le parli dei miei viaggi, poi... // poi quando siamo soli (oh come piove!) / mi dici rauca [a voce bassa] di non so che sfida / corsa tra voi; e dici, dici dove, // quando, come, perché; ripeti ancora / quando, come, perché; chiedi consiglio / con un sorriso non più tuo, di nuora. // Parli d’una cognata quasi avara / che viene spesso per casa col figlio / e non sai se temerla o averla cara; // parli del nonno ch’è quasi al tramonto / il nonno ricco del tuo Dino, e dici: / «Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»; // parli della città, delle signore / che già conosci, di giorni felici, / di libertà, d’amor proprio, d’amore. // Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / sono a Cesena e mia sorella è qui, / tutta d’un uomo ch’io conosco appena, // tra nuova gente, nuove cure [impegni, problemi], nuove / tristezze, e a me parla... così, / senza dolcezza, mentre piove o spiove: // «La mamma nostra t’avrà detto che... / E poi si vede, ora si vede, e come! / sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè! // Sai che non voglio balia? che ho speranza / d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome... / Ho fortuna, è una buona gravidanza...» // Ancora parli, ancora parli, e guardi / le cose intorno. Piove. S’avvicina / l’ombra grigiastra [la sera]. Suona l’ora. È tardi. // E l’anno scorso eri così bambina!
«Piove. È mercoledì. Sono a Cesena»: inizia così, con tre scarne annotazioni, il componimento di Moretti. L’essenzialità della vita, per certi versi così piatta e banale, quasi insignificante rispetto alle aspettative, trova riscontro nel primo verso di un testo che sembra tutto fuorché poetico. Venuta meno l’apparenza, infatti, l’esistenza è ben poca cosa, è un sopravvivere tra stenti, un continuo tener duro di fronte ad avversità che si rivelano ogni giorno più minacciose.
C’è chi però non riesce a fingere e rifiuta la maschera delle convenzioni sociali. Perché far credere di essere felici, quando invece si ha l’animo turbato? Il poeta, la cui tristezza è inizialmente l’unico sentimento sincero, non accetta il costume borghese secondo cui tutto deve essere sempre, costantemente in ordine. Egli percepisce il disagio della sorella e si stupisce che ella tenti di nascondere ciò che prova, che si ostini a ridere, quando è evidente che il suo è un sorriso di facciata, che non può ingannare l’occhio esperto e sensibile di un fratello.
 Di fronte allo sguardo impietoso del poeta, l’artefatto idillio di una vita familiare ostentatamente serena e appagante si dissolve. Il nuovo ambiente domestico della sorella, infatti, è soffocante: sembra quasi una prigione che opprime e impedisce la libera espressione di sé. Tutto è fastidiosamente finto, come la nuova mamma (la suocera), che si fa chiamare proprio così, «mamma», ma che non ha nulla a che vedere con la «mamma nostra», quella autentica, imprescindibile punto di riferimento dell’infanzia. O come il suocero, uomo «dabbene» (termine, come anticipato, usato in senso ironico) che «vuole un po’ di bene» alla nuora, ma senza esagerare, verrebbe da aggiungere. Per certi versi, sembra che il passato si contrapponga al presente come periodo delle certezze, in contrasto con l’indeterminatezza dell’avvenire. Gli affetti dell’infanzia, la famiglia, la casa natale: sono questi i veri punti di riferimento del poeta, laddove invece ogni cambiamento è guardato con sospetto, come se celasse inevitabilmente una minaccia.
Il ricordo, di conseguenza, risulta essere l’unico porto sicuro cui approdare per difendersi dall’angoscia. Scrive infatti Moretti in una pagina autobiografica: «Il passato è la mia sola ricchezza e, dirò, il mio avvenire alla rovescia […]. Tutta la fede, tutte le speranze che si sogliono porre nell’avvenire, io le porrò nel passato, e se una frase fatta come “ipotecare l’avvenire” avrà un senso per me, vorrà dire che ipotecherò proprio il mio passato fino ad annetterlo tutto, fino a divorarlo, come le ipoteche divorano la proprietà degli immobili. Che m’importa di quel che mi riserba la vita? M’importa di quel che ho già visto e che voglio rivedere e rivivere, non più alla maniera degli altri, non più in servizio della fatalità, ma sì, finalmente, a mio modo […]. Solo così potrò dare un senso alla vita, alle cose che quasi non l’ebbero».
Moretti quindi non ha nessuna voglia di scoprire come evolverà la sua vita e, nel caso specifico della sorella, di fare i conti con un rapporto che, rispetto all’infanzia, si è necessariamente complicato. I cambiamenti sono per lui drammaticamente sconvolgenti, e risultano gestibili solo nel momento in cui la sorella getta la maschera e riconosce, in confidenza, il proprio disagio. Il matrimonio, infatti, l’ha catapultata in un ambiente estraneo e a tratti ostile; e, soprattutto, la prospettiva della maternità, lungi dal configurarsi come motivo di speranza, risulta essere in realtà una sorta di prigione destinata a cristallizzare l’esistenza in un eterno arido presente.
La terzina conclusiva non concede però spazio alla speranza. Il tempo corre senza tregua: è una prova tangibile della fugacità della vita, dell’impossibilità di fermarsi anche solo brevemente ad assaporare i pochi momenti felici, che scivolano, inesorabilmente, nell’impalpabile interiorità del ricordo. «Ancora parli, ancora parli, e guardi le cose intorno», scrive Moretti, alludendo al vano tentativo da parte della sorella di afferrare un presente che sfugge, di trovare un appiglio. Ma non c’è nulla che si possa fare: «Piove. S’avvicina l’ora grigiastra. Suona l’ora. È tardi». Sembra il rapido resoconto degli ultimi istanti di vita di un condannato a morte. La pioggia, corrispettivo simbolico dello stato d’animo del poeta, lava via ogni illusione, scandisce implacabile il grigiore di un’esistenza simile ad una promessa non mantenuta. Il presente scorre via trascinato da un futuro che incute timore, minaccioso e inquietante. E pensare – conclude il poeta, rivolgendosi alla sorella con l’amara nostalgia di chi percepisce la felicità confinata nel ricordo – che «l’anno scorso eri così bambina!».

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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