(articolo apparso su Prima Pagina del 6 settembre 2014)
Marino Moretti è un autore forse non troppo noto, per lo
più letto da qualche appassionato di letteratura o da studenti di liceo e
università. Della sua vita non c’è molto da dire: nacque e morì a Cesenatico
(1885-1979), visse per qualche tempo a Firenze e scrisse numerose raccolte
poetiche e romanzi, in gran parte sconosciuti. In pratica, a salvarsi dall’oblio
che abbraccia l’intera sua produzione è un unico, celebre componimento,
presente pressoché in tutte le storie della letteratura: A Cesena. Si tratta, effettivamente, di un testo tra i più belli
della corrente crepuscolare: in tutto, diciassette terzine in rima e un
endecasillabo conclusivo caratterizzati da un andamento prosastico
perfettamente in sintonia con il grigiore della mediocre quotidianità che fa da
sfondo all’intera vicenda. Di fatto, il contenuto si riassume in poche parole:
il poeta, recatosi a Cesena per far visita alla sorella da poco sposa, intuisce
immediatamente che il matrimonio non l’ha resa felice. Subentrano così i
ricordi dell’infanzia, in un clima di angoscia e malinconia.
Leggiamo dunque i versi di Moretti, i quali, molto
semplici, non necessitano di parafrasi (ci si limiterà, pertanto, ad inserire
tra parentesi quadre alcune brevi note chiarificatrici):
Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia
sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena. // Batte la pioggia il
grigio borgo, lava / la faccia [la facciata] della casa senza posa [senza
sosta], / schiuma a piè delle gronde come bava. // Tu mi sorridi. Io sono
triste. E forse / triste è per te la pioggia cittadina, / il nuovo amore che
non ti soccorse [che non ti ha portato la felicità sperata], // il sogno che
non ti avvizzì [che non ti ha invecchiato, che non si mantiene vivo, cioè,
nella nuova condizione di sposa], sorella / che guardi me con occhio che s’ostina
/ a dirmi bella la tua vita, bella, // bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora
/ o sposa, io vedo tuo marito, sento, / oggi, a chi dici mamma, a una signora
[la suocera]; // so che quell’uomo è il suocero dabbene [aggettivo che
sottolinea la moralità, formale più che sostanziale e tipicamente piccolo
borghese, del nuovo ambiente familiare della sorella] / che dopo il lauto pasto
è sonnolento, / il babbo che ti vuole un po’ di bene. // «Mamma!» tu chiami, e
le sorridi e vuoi / ch’io sia gentile, vuoi ch’io le sorrida, / che le parli
dei miei viaggi, poi... // poi quando siamo soli (oh come piove!) / mi dici
rauca [a voce bassa] di non so che sfida / corsa tra voi; e dici, dici dove, //
quando, come, perché; ripeti ancora / quando, come, perché; chiedi consiglio /
con un sorriso non più tuo, di nuora. // Parli d’una cognata quasi avara / che
viene spesso per casa col figlio / e non sai se temerla o averla cara; // parli
del nonno ch’è quasi al tramonto / il nonno ricco del tuo Dino, e dici: /
«Vedrai, vedrai se lo terrò di conto»; // parli della città, delle signore /
che già conosci, di giorni felici, / di libertà, d’amor proprio, d’amore. // Piove.
È mercoledì. Sono a Cesena, / sono a Cesena e mia sorella è qui, / tutta d’un
uomo ch’io conosco appena, // tra nuova gente, nuove cure [impegni, problemi],
nuove / tristezze, e a me parla... così, / senza dolcezza, mentre piove o
spiove: // «La mamma nostra t’avrà detto che... / E poi si vede, ora si vede, e
come! / sì, sono incinta... Troppo presto, ahimè! // Sai che non voglio balia?
che ho speranza / d’allattarlo da me? Cerchiamo un nome... / Ho fortuna, è una
buona gravidanza...» // Ancora parli, ancora parli, e guardi / le cose intorno.
Piove. S’avvicina / l’ombra grigiastra [la sera]. Suona l’ora. È tardi. // E l’anno
scorso eri così bambina!
«Piove. È mercoledì. Sono a Cesena»: inizia così, con tre
scarne annotazioni, il componimento di Moretti. L’essenzialità della vita, per
certi versi così piatta e banale, quasi insignificante rispetto alle
aspettative, trova riscontro nel primo verso di un testo che sembra tutto
fuorché poetico. Venuta meno l’apparenza, infatti, l’esistenza è ben poca cosa,
è un sopravvivere tra stenti, un continuo tener duro di fronte ad avversità che
si rivelano ogni giorno più minacciose.
C’è chi però non riesce a fingere e rifiuta la maschera
delle convenzioni sociali. Perché far credere di essere felici, quando invece
si ha l’animo turbato? Il poeta, la cui tristezza è inizialmente l’unico
sentimento sincero, non accetta il costume borghese secondo cui tutto deve
essere sempre, costantemente in ordine. Egli percepisce il disagio della
sorella e si stupisce che ella tenti di nascondere ciò che prova, che si ostini
a ridere, quando è evidente che il suo è un sorriso di facciata, che non può
ingannare l’occhio esperto e sensibile di un fratello.
Di fronte allo
sguardo impietoso del poeta, l’artefatto idillio di una vita familiare
ostentatamente serena e appagante si dissolve. Il nuovo ambiente domestico
della sorella, infatti, è soffocante: sembra quasi una prigione che opprime e
impedisce la libera espressione di sé. Tutto è fastidiosamente finto, come la
nuova mamma (la suocera), che si fa chiamare proprio così, «mamma», ma che non
ha nulla a che vedere con la «mamma nostra», quella autentica, imprescindibile
punto di riferimento dell’infanzia. O come il suocero, uomo «dabbene» (termine,
come anticipato, usato in senso ironico) che «vuole un po’ di bene» alla nuora,
ma senza esagerare, verrebbe da aggiungere. Per certi versi, sembra che il
passato si contrapponga al presente come periodo delle certezze, in contrasto
con l’indeterminatezza dell’avvenire. Gli affetti dell’infanzia, la famiglia,
la casa natale: sono questi i veri punti di riferimento del poeta, laddove
invece ogni cambiamento è guardato con sospetto, come se celasse
inevitabilmente una minaccia.
Il ricordo, di conseguenza, risulta essere l’unico porto
sicuro cui approdare per difendersi dall’angoscia. Scrive infatti Moretti in
una pagina autobiografica: «Il passato è la mia sola ricchezza e, dirò, il mio
avvenire alla rovescia […]. Tutta la fede, tutte le speranze che si sogliono
porre nell’avvenire, io le porrò nel passato, e se una frase fatta come
“ipotecare l’avvenire” avrà un senso per me, vorrà dire che ipotecherò proprio
il mio passato fino ad annetterlo tutto, fino a divorarlo, come le ipoteche
divorano la proprietà degli immobili. Che m’importa di quel che mi riserba la
vita? M’importa di quel che ho già visto e che voglio rivedere e rivivere, non
più alla maniera degli altri, non più in servizio della fatalità, ma sì,
finalmente, a mio modo […]. Solo così potrò dare un senso alla vita, alle cose
che quasi non l’ebbero».
Moretti quindi non ha nessuna voglia di scoprire come
evolverà la sua vita e, nel caso specifico della sorella, di fare i conti con
un rapporto che, rispetto all’infanzia, si è necessariamente complicato. I
cambiamenti sono per lui drammaticamente sconvolgenti, e risultano gestibili
solo nel momento in cui la sorella getta la maschera e riconosce, in
confidenza, il proprio disagio. Il matrimonio, infatti, l’ha catapultata in un
ambiente estraneo e a tratti ostile; e, soprattutto, la prospettiva della
maternità, lungi dal configurarsi come motivo di speranza, risulta essere in
realtà una sorta di prigione destinata a cristallizzare l’esistenza in un
eterno arido presente.
La terzina conclusiva non concede però spazio alla
speranza. Il tempo corre senza tregua: è una prova tangibile della fugacità
della vita, dell’impossibilità di fermarsi anche solo brevemente ad assaporare
i pochi momenti felici, che scivolano, inesorabilmente, nell’impalpabile
interiorità del ricordo. «Ancora parli, ancora parli, e guardi le cose intorno»,
scrive Moretti, alludendo al vano tentativo da parte della sorella di afferrare
un presente che sfugge, di trovare un appiglio. Ma non c’è nulla che si possa
fare: «Piove. S’avvicina l’ora grigiastra. Suona l’ora. È tardi». Sembra il
rapido resoconto degli ultimi istanti di vita di un condannato a morte. La
pioggia, corrispettivo simbolico dello stato d’animo del poeta, lava via ogni
illusione, scandisce implacabile il grigiore di un’esistenza simile ad una
promessa non mantenuta. Il presente scorre via trascinato da un futuro che
incute timore, minaccioso e inquietante. E pensare – conclude il poeta,
rivolgendosi alla sorella con l’amara nostalgia di chi percepisce la felicità
confinata nel ricordo – che «l’anno scorso eri così bambina!».
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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