(articolo apparso su Prima Pagina del 15 novembre 2014)
«Se la vita non è felice, che fino a ora non è stata,
meglio ci torna averla breve che lunga». È questo, in estrema sintesi, il
significato del Dialogo di un Fisico e di
un Metafisico di Giacomo Leopardi: nel giudicare la vita di un uomo, non
conta la durata, bensì la qualità. Un’esistenza felice ma limitata negli anni è
senza dubbio preferibile ad una vita eterna contrassegnata dal dolore.
Il Dialogo –
uno dei più celebri delle Operette morali
– mette dunque in scena un’animata discussione a partire dal seguente quesito
fondamentale: la vita è un bene in sé, o per amarla c’è bisogno d’altro? A
confrontarsi sono un Fisico e un Metafisico (ossia un filosofo), con il secondo
– sul modello di Socrate – impegnato a confutare le argomentazioni del primo.
L’esordio del Fisico, infatti, è caratterizzato dall’entusiasmo
per una scoperta sensazionale. Egli afferma di avere trovato esposta in un
libro «l’arte di vivere lungamente», per la quale sarà senz’altro ricordato in
eterno. Ma il Metafisico non sembra affatto colpito: «Fa una cosa a mio modo.
Trova una cassettina di piombo [si noti che di piombo erano abitualmente le
casse da morto], chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire
ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il
libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente».
Cosa fare però nel frattempo del libro, replica il Fisico?
Risponde il Metafisico: «In questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo
stimerei se contenesse l’arte di vivere poco». Ciò che egli intende è che la
vita non ha alcun valore in sé – contrariamente a quanto sostiene il Fisico –
se non è accompagnata dalla felicità. In altre parole, un’esistenza
contrassegnata da continua sofferenza non merita alcuna considerazione da parte
del filosofo, per il quale essa è del tutto insoddisfacente. Di conseguenza, se
la vita è infelice – come è evidente, a parere di Leopardi –, tanto meglio se è
di breve durata.
Le argomentazioni del Metafisico per confutare l’idea che
la vita sia un bene in sé insistono in particolare su un aspetto: «come il
volgo s’inganna pensando che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non
sono degli oggetti, ma della luce», allo stesso modo l’uomo «non ama la vita,
se non in quanto la reputa instrumento» della felicità. L’amore della vita, in
sostanza, non è altro che una mera illusione, come provano tutti coloro che –
stanchi di essa, in quanto infelice – decidono di congedarsi dal mondo
attraverso il suicidio. Perciò – conclude il Metafisico –, posto che «la vita
felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita», è evidente che
«la vita infelice, in quanto all’essere infelice, è male».
Il Fisico, ad ogni modo, non sente ragioni: a suo parere
nessun uomo disdegnerebbe una vita eterna, liberata dall’assillo della morte.
Ma il Metafisico, ancora una volta, dissente radicalmente, e a sostegno delle
proprie tesi – giacché l’argomento è fantasioso, non essendovi traccia sulla Terra
di uomini immortali – propone alcuni esempi tratti da favole e miti. Tra
questi, particolarmente significativo è quello di Chirone, il centauro maestro
di Achille il quale, sofferente a causa di una ferita provocata da una freccia
scoccata da Ercole, chiede a Zeus di morire, scambiando la propria immortalità
con Prometeo. Com’è facilmente intuibile, il ragionamento del Metafisico è
incentrato sul paradosso di un dio che preferisce la condizione di mortale:
«Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiò
della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì. Or pensa, se l’immortalità
rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini».
C’è poi un’ulteriore questione da affrontare, secondo il
Metafisico. Siccome – afferma – è dimostrato che esistono popolazioni «di
alcune parti dell’India e dell’Etiopia» per le quali la vita media non supera i
quarant’anni, è possibile affermare che esse vivano per forza di cose una vita
più misera rispetto agli europei? Stando al ragionamento del Fisico, per il
quale la vita ha valore in se stessa, i popoli meno longevi dovrebbero essere
di gran lunga meno felici di quelli per i quali l’aspettativa di vita è
maggiore. Ma è vero tutto questo?
Il Metafisico è convinto che la durata della vita non
conti nulla. Il suo ragionamento si fa complesso: «Io negava che la pura vita,
cioè a dire il semplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa amabile e
desiderabile per natura, ma quello che forse più degnamente ha nome altresì di
vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato
e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o passione viva e
forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e
forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole».
Non la vita in sé, pertanto, ha valore, ma solo ciò che proviamo a livello dei
sentimenti, che devono essere necessariamente tumultuosi, pena lo scadimento
dell’esistenza nella noia (la quale è essenzialmente assenza di vitalità). Ciò
che rende degna una vita, perciò, è la sua intensità, che è tanto maggiore
quanto minore è la sua durata; il che porta all’ovvia conseguenza che i popoli
meno longevi sono nettamente avvantaggiati, potendo condurre un’esistenza «più
viva il doppio di questa nostra». Una morte che sopraggiunga in tempi brevi,
infatti, rende gli uomini più vitali, dal momento che un’esistenza
caratterizzata da trasformazioni e sconvolgimenti rapidi è forzatamente più
intensa di una vita condotta fiaccamente, con snervante lentezza.
Di fronte a questa provocazione (meglio non vivere troppo
a lungo), il Fisico tenta in qualche modo di sottrarsi alla discussione,
sentenziando che, al di là di tutti i possibili ragionamenti, la vita è
naturalmente «più bella della morte». Ma il Metafisico insiste: per convincersi
che la vita non è necessariamente bella, basta osservare il costume degli
Sciti, «che per ciascun giorno infelice della loro vita, gittavano in un
turcasso una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bianca», e constatare
«quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle
faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere».
La replica del Fisico è coerente con il ragionamento
precedente: quand’anche tutte le pietre fossero nere, la morte non sarebbe
comunque desiderabile poiché è evidente che «niun sassolino sia così nero come
l’ultimo». Con la risposta del Metafisico, il Dialogo si conclude. Egli afferma che se proprio il suo
interlocutore è interessato ad allungare la vita degli uomini, faccia almeno in
modo che «sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le sensazioni e le
azioni loro». Solo così la vita umana potrà dirsi realmente accresciuta, ossia
«empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro essere è
piuttosto durare che vivere». La vita, in sostanza, è «tanto meno infelice,
quanto più fortemente agitata», mentre se «piena d’ozio e di tedio, che è
quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di Pirrone, che dalla
vita alla morte non è divario» (il che, se fosse vero, renderebbe la morte
decisamente spaventosa). In conclusione, «la vita debb’esser viva, cioè vera
vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio».
Il concetto chiave, per Leopardi, è dunque quello della
noia, ovvero il vuoto interiore che priva la vita dei sentimenti e delle
sensazioni più autentiche, riducendo l’esistenza ad una vacua ed insignificante
durata. C’è una sostanziale differenza, in altre parole, tra il vivere e il
sopravvivere. Gli antichi, infatti, in virtù dei «pericoli gravi e continui che
solevano correre», vivevano più dei moderni, nonostante, in termini di durata
temporale, la loro vita fosse più breve. Niente perciò ha valore in sé: tutto
dipende dalla capacità dell’uomo di riempire il tempo a sua disposizione, in
modo tale da sentirsi (e non semplicemente essere) vivo. Un’esistenza apatica e
passiva è del tutto insignificante, di gran lunga peggiore della morte, la
quale quantomeno garantisce la cessazione delle sofferenze (sempre che non sia
vera la sentenza di Pirrone: che ne sarebbe, in effetti, dell’uomo, se
l’infelicità – e qui Leopardi lascia trapelare tutta la sua angoscia – potesse
sopravvivere alla morte?). Per vivere, occorre darsi da fare, costruire
qualcosa, mettersi continuamente alla prova, scommettere ripetutamente su se
stessi. La vitalità non è per nulla una componente scontata dell’esistenza.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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