(articolo apparso su Prima Pagina del 5 luglio 2014)
Tutti a scuola hanno letto I
promessi sposi, ma è lecito presumere che in pochi abbiano realmente capito
il perché. Il punto è che tra gli studenti di tutte le età il capolavoro di
Manzoni è talmente inflazionato da apparire scontato, quasi sinonimo di
pedanteria e sterile erudizione. Ma qual è il vero motivo per cui, in ogni
classe che si rispetti, si continua a pretenderne la lettura integrale? Cosa
rende, in altre parole, il romanzo con protagonisti Renzo e Lucia il classico
per antonomasia (accanto alla Commedia di Dante) della letteratura
italiana?
Innanzitutto proprio il fatto di
essere un romanzo. Nell'Italia del primo Ottocento, infatti, scegliere il
romanzo come forma di sublime espressione letteraria è, se non un azzardo,
quantomeno una scelta innovativa. Nessuno scrittore di quel periodo si sarebbe
mai sognato di raccontare una vicenda tragica attraverso un genere
universalmente considerato "inferiore". Ma Manzoni, che aveva molto
apprezzato il Walter Scott dell'Ivanhoe, ritiene di avere bisogno di uno
strumento nuovo rispetto alla scrittura tragica e lirica: egli ha in mente
un'opera dall'ampio respiro, in grado di raggiungere un folto pubblico a
livello nazionale e di superare la tradizionale separazione degli stili. Come scrive nel 1823 a Cesare d'Azeglio
(padre del più celebre Massimo), tre devono essere i capisaldi della sua
produzione: «L'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per
mezzo». Il che significa, in sostanza, rappresentare la realtà rinunciando alle
ampollosità classicheggianti della letteratura tradizionale e rivolgersi ad un
vasto pubblico per educarlo attraverso l'esposizione di vicende interessanti,
al contempo accessibili (per quanto concerne il linguaggio e l'appartenenza
sociale) ed edificanti. Parlare di romanzo significa pertanto fare riferimento
ad un genere che risponde pienamente alle esigenze di impegno civile che sono
prerogativa di ogni scrittore, dato per scontato che quest'ultimo, a parere di
Manzoni, deve sempre soggiacere a una concezione utilitaria della letteratura, la
quale altro non è che un nobile mezzo per raggiungere uno scopo.
Scegliendo di rappresentare in forme
serie e problematiche una realtà umile (che la letteratura tradizionale relega
abitualmente al genere comico), Manzoni si presenta dunque quale grande innovatore
tra gli scrittori italiani del XIX secolo. Di fatto, egli introduce in Italia
il moderno realismo europeo, secondo il quale il personaggio non è più un
individuo spersonalizzato collocato in uno sfondo spazio-temporale astratto,
bensì una figura concreta che risente del preciso contesto storico in cui vive.
Ne I promessi sposi, Renzo e Lucia sono contadini lombardi del Seicento
dotati di personalità unica: in essi è assente qualunque tentativo di
idealizzazione, tant'è che i valori e i pensieri di cui si fanno portatori, pur
condivisi dal Manzoni, rimangono per tutto il romanzo espressione della loro
mentalità di popolani.
Il punto di partenza della nostra
indagine è dunque relativo alla questione stilistica: nelle scuole leggiamo
Manzoni perché è il primo moderno romanziere italiano. Tuttavia, come è facile
intuire, questa è solo una delle ragioni. Anche sotto il profilo ideologico,
infatti, I promessi sposi sono (o meglio, sono stati a lungo) un
modello. Oggi, di certo, non è più così, ma nell'Italia post-risorgimentale i
valori dell'opera manzoniana soddisfacevano appieno le esigenze di una classe dirigente
ossessionata dall'incubo della degenerazione della lotta di classe. La scelta
di puntare sul romanzo di Manzoni, elevandolo – come peraltro merita, anche se
per altri motivi – a supremo capolavoro della letteratura italiana, fu pertanto
una decisione tutt'altro che estranea alla politica.
Ma qual è, in definitiva, l'ideale di
società che emerge dalla lettura de I promessi sposi? Sostanzialmente,
Manzoni sostiene la necessità della concordia tra le classi. Il che significa,
da un lato, partire dal presupposto che le classi esistono (nelle Osservazioni sulla morale cattolica egli
significativamente afferma che la religione «comanda [...] al ricco di dare il
superfluo» e «all'offeso di perdonare»); dall'altro stabilire il principio che
la vera causa dei disagi sociali è rappresentata dall'egoismo e dall'avidità. Cristianamente
parlando, la società si compone pertanto di un'aristocrazia che deve porre le
proprie ricchezze in esubero al servizio della collettività, di un ceto medio
che deve rifuggire dall'assillo del profitto e di un vasto universo popolare
che deve accettare con rassegnazione la propria condizione marginale dimostrandosi
pio e laborioso, in ottemperanza ai dettami del Vangelo.
Ad un attento esame, il complesso
sistema dei personaggi manzoniani rispecchia questo schema, offrendo per ogni
categoria modelli negativi e positivi. Abbiamo così, per l'aristocrazia, da una
parte don Rodrigo e Gertrude (modello di classe dominante che sfrutta il potere
per opprimere i più deboli); dall'altra il cardinal Federigo, esempio di
rettitudine e altruismo. Per quanto attiene al ceto medio, da un lato Don
Abbondio e Azzeccagarbugli (meschini ed egoisti), dall'altro fra Cristoforo,
che ripudia la vita dissoluta della gioventù per farsi cappuccino. Per quanto
riguarda, infine, il popolo, l'esempio negativo è fornito dalla folla sediziosa
di Milano, mentre quello positivo dall'umile e rassegnata figura di Lucia,
autentico modello di fede cristiana capace di resistere all'impatto con il male
della storia. Vi sono poi due personaggi (tre se si conta anche fra Cristoforo)
che non appartengono in maniera netta ad uno dei due modelli, dal momento che
maturano attraverso un passaggio dal negativo al positivo: si tratta dell'Innominato,
che si converte e mette in salvo Lucia, e di Renzo, che impara a sopire il
proprio istinto ribelle per abbandonarsi, infine, alla volontà di Dio.
Lo schema acquista però un senso solo
se si tiene conto che alla base della visione religiosa del Manzoni risiede una
concezione tragica e pessimistica della realtà, che rende intollerabile, in
letteratura, l'idillica serenità di matrice classica. Di qui l'esigenza di
rappresentare il «vero», con il conseguente ripudio di tutto ciò che è
inverosimile ed artificioso (si legge, infatti, nel Fermo e Lucia: «Se
le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non
fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile,
l'ultima delle professioni»); ma anche la convinzione che, in conseguenza del
peccato originale, all'umanità sia preclusa una condizione di autentica
felicità su questa terra, e che di conseguenza la rassegnazione religiosa
costituisca il solo efficace antidoto contro il male, insito nella storia, che
regola i rapporti tra gli individui.
Non per niente la vicenda del
romanzo, che prende le mosse da una situazione inziale di serenità, si traduce
in una forzata esplorazione degli aspetti negativi del mondo. È solo attraverso
di essi che i personaggi giungono a maturazione, secondo la concezione – già
espressa nell'Adelchi – della «provvida sventura». Manzoni, in altre
parole, è convinto che non ci sia modo per evitare il male (non vale, cioè, il
principio della giustizia distributiva, secondo il quale Dio ricompensa i
giusti preservandoli dal dolore), e proprio per questo ritiene che la più
grande conquista spirituale alla portata dell'uomo sia l'acquisizione della
piena consapevolezza della tragicità della vita. Respingere il male equivale
pertanto a pretendere di conferire un assurdo valore assolutizzante all'esperienza
terrena, laddove invece quest'ultima, lungi dall'essere definitiva, non è altro
che una fase transeunte. In questo senso, la rassegnazione religiosa non ha
nulla a che vedere con la debolezza: al contrario, essa implica la piena
accettazione di ciò che Dio dispone in base al suo disegno imperscrutabile e
quindi, di conseguenza, il rifiuto di ogni sorta di ribellione all'ordine
costituito (secondo il suo volere, ovviamente).
Il «sugo» del romanzo è dunque ben
espresso dalle parole di chiusa dell'ultimo capitolo: «Conclusero che i guai
vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta
e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa
o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita
migliore».
Come si intuisce, siamo ben lontani
dal Manzoni tipicamente scolastico autore di un romanzo di formazione
banalmente "spendibile" per l'educazione dei giovani studenti. Lungi
dall'essere un libro edificante nel senso più scontato della parola, I promessi sposi sono espressione di una
visione estremamente problematica e tragica della realtà. Tra il propagandare
la concordia tra le classi e il suggerire che la società debba rassegnarsi ad
accettare il male c'è un bel salto: un salto che però bisogna compiere se
vogliamo capire perché vale ancora la pena leggere un autore come Manzoni, e,
soprattutto, se intendiamo superare una certa malcelata idiosincrasia nei suoi
confronti.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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