venerdì 11 luglio 2014

«I promessi sposi»: un romanzo che tutti pensano (fin troppo) di conoscere

(articolo apparso su Prima Pagina del 5 luglio 2014)

Tutti a scuola hanno letto I promessi sposi, ma è lecito presumere che in pochi abbiano realmente capito il perché. Il punto è che tra gli studenti di tutte le età il capolavoro di Manzoni è talmente inflazionato da apparire scontato, quasi sinonimo di pedanteria e sterile erudizione. Ma qual è il vero motivo per cui, in ogni classe che si rispetti, si continua a pretenderne la lettura integrale? Cosa rende, in altre parole, il romanzo con protagonisti Renzo e Lucia il classico per antonomasia (accanto alla Commedia di Dante) della letteratura italiana?
Innanzitutto proprio il fatto di essere un romanzo. Nell'Italia del primo Ottocento, infatti, scegliere il romanzo come forma di sublime espressione letteraria è, se non un azzardo, quantomeno una scelta innovativa. Nessuno scrittore di quel periodo si sarebbe mai sognato di raccontare una vicenda tragica attraverso un genere universalmente considerato "inferiore". Ma Manzoni, che aveva molto apprezzato il Walter Scott dell'Ivanhoe, ritiene di avere bisogno di uno strumento nuovo rispetto alla scrittura tragica e lirica: egli ha in mente un'opera dall'ampio respiro, in grado di raggiungere un folto pubblico a livello nazionale e di superare la tradizionale separazione degli stili.  Come scrive nel 1823 a Cesare d'Azeglio (padre del più celebre Massimo), tre devono essere i capisaldi della sua produzione: «L'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo». Il che significa, in sostanza, rappresentare la realtà rinunciando alle ampollosità classicheggianti della letteratura tradizionale e rivolgersi ad un vasto pubblico per educarlo attraverso l'esposizione di vicende interessanti, al contempo accessibili (per quanto concerne il linguaggio e l'appartenenza sociale) ed edificanti. Parlare di romanzo significa pertanto fare riferimento ad un genere che risponde pienamente alle esigenze di impegno civile che sono prerogativa di ogni scrittore, dato per scontato che quest'ultimo, a parere di Manzoni, deve sempre soggiacere a una concezione utilitaria della letteratura, la quale altro non è che un nobile mezzo per raggiungere uno scopo.
Scegliendo di rappresentare in forme serie e problematiche una realtà umile (che la letteratura tradizionale relega abitualmente al genere comico), Manzoni si presenta dunque quale grande innovatore tra gli scrittori italiani del XIX secolo. Di fatto, egli introduce in Italia il moderno realismo europeo, secondo il quale il personaggio non è più un individuo spersonalizzato collocato in uno sfondo spazio-temporale astratto, bensì una figura concreta che risente del preciso contesto storico in cui vive. Ne I promessi sposi, Renzo e Lucia sono contadini lombardi del Seicento dotati di personalità unica: in essi è assente qualunque tentativo di idealizzazione, tant'è che i valori e i pensieri di cui si fanno portatori, pur condivisi dal Manzoni, rimangono per tutto il romanzo espressione della loro mentalità di popolani.
Il punto di partenza della nostra indagine è dunque relativo alla questione stilistica: nelle scuole leggiamo Manzoni perché è il primo moderno romanziere italiano. Tuttavia, come è facile intuire, questa è solo una delle ragioni. Anche sotto il profilo ideologico, infatti, I promessi sposi sono (o meglio, sono stati a lungo) un modello. Oggi, di certo, non è più così, ma nell'Italia post-risorgimentale i valori dell'opera manzoniana soddisfacevano appieno le esigenze di una classe dirigente ossessionata dall'incubo della degenerazione della lotta di classe. La scelta di puntare sul romanzo di Manzoni, elevandolo – come peraltro merita, anche se per altri motivi – a supremo capolavoro della letteratura italiana, fu pertanto una decisione tutt'altro che estranea alla politica.
Ma qual è, in definitiva, l'ideale di società che emerge dalla lettura de I promessi sposi? Sostanzialmente, Manzoni sostiene la necessità della concordia tra le classi. Il che significa, da un lato, partire dal presupposto che le classi esistono (nelle Osservazioni sulla morale cattolica egli significativamente afferma che la religione «comanda [...] al ricco di dare il superfluo» e «all'offeso di perdonare»); dall'altro stabilire il principio che la vera causa dei disagi sociali è rappresentata dall'egoismo e dall'avidità. Cristianamente parlando, la società si compone pertanto di un'aristocrazia che deve porre le proprie ricchezze in esubero al servizio della collettività, di un ceto medio che deve rifuggire dall'assillo del profitto e di un vasto universo popolare che deve accettare con rassegnazione la propria condizione marginale dimostrandosi pio e laborioso, in ottemperanza ai dettami del Vangelo.
Ad un attento esame, il complesso sistema dei personaggi manzoniani rispecchia questo schema, offrendo per ogni categoria modelli negativi e positivi. Abbiamo così, per l'aristocrazia, da una parte don Rodrigo e Gertrude (modello di classe dominante che sfrutta il potere per opprimere i più deboli); dall'altra il cardinal Federigo, esempio di rettitudine e altruismo. Per quanto attiene al ceto medio, da un lato Don Abbondio e Azzeccagarbugli (meschini ed egoisti), dall'altro fra Cristoforo, che ripudia la vita dissoluta della gioventù per farsi cappuccino. Per quanto riguarda, infine, il popolo, l'esempio negativo è fornito dalla folla sediziosa di Milano, mentre quello positivo dall'umile e rassegnata figura di Lucia, autentico modello di fede cristiana capace di resistere all'impatto con il male della storia. Vi sono poi due personaggi (tre se si conta anche fra Cristoforo) che non appartengono in maniera netta ad uno dei due modelli, dal momento che maturano attraverso un passaggio dal negativo al positivo: si tratta dell'Innominato, che si converte e mette in salvo Lucia, e di Renzo, che impara a sopire il proprio istinto ribelle per abbandonarsi, infine, alla volontà di Dio.
Lo schema acquista però un senso solo se si tiene conto che alla base della visione religiosa del Manzoni risiede una concezione tragica e pessimistica della realtà, che rende intollerabile, in letteratura, l'idillica serenità di matrice classica. Di qui l'esigenza di rappresentare il «vero», con il conseguente ripudio di tutto ciò che è inverosimile ed artificioso (si legge, infatti, nel Fermo e Lucia: «Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d'uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l'ultima delle professioni»); ma anche la convinzione che, in conseguenza del peccato originale, all'umanità sia preclusa una condizione di autentica felicità su questa terra, e che di conseguenza la rassegnazione religiosa costituisca il solo efficace antidoto contro il male, insito nella storia, che regola i rapporti tra gli individui.
Non per niente la vicenda del romanzo, che prende le mosse da una situazione inziale di serenità, si traduce in una forzata esplorazione degli aspetti negativi del mondo. È solo attraverso di essi che i personaggi giungono a maturazione, secondo la concezione – già espressa nell'Adelchi – della «provvida sventura». Manzoni, in altre parole, è convinto che non ci sia modo per evitare il male (non vale, cioè, il principio della giustizia distributiva, secondo il quale Dio ricompensa i giusti preservandoli dal dolore), e proprio per questo ritiene che la più grande conquista spirituale alla portata dell'uomo sia l'acquisizione della piena consapevolezza della tragicità della vita. Respingere il male equivale pertanto a pretendere di conferire un assurdo valore assolutizzante all'esperienza terrena, laddove invece quest'ultima, lungi dall'essere definitiva, non è altro che una fase transeunte. In questo senso, la rassegnazione religiosa non ha nulla a che vedere con la debolezza: al contrario, essa implica la piena accettazione di ciò che Dio dispone in base al suo disegno imperscrutabile e quindi, di conseguenza, il rifiuto di ogni sorta di ribellione all'ordine costituito (secondo il suo volere, ovviamente).
Il «sugo» del romanzo è dunque ben espresso dalle parole di chiusa dell'ultimo capitolo: «Conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita migliore».
Come si intuisce, siamo ben lontani dal Manzoni tipicamente scolastico autore di un romanzo di formazione banalmente "spendibile" per l'educazione dei giovani studenti. Lungi dall'essere un libro edificante nel senso più scontato della parola, I promessi sposi sono espressione di una visione estremamente problematica e tragica della realtà. Tra il propagandare la concordia tra le classi e il suggerire che la società debba rassegnarsi ad accettare il male c'è un bel salto: un salto che però bisogna compiere se vogliamo capire perché vale ancora la pena leggere un autore come Manzoni, e, soprattutto, se intendiamo superare una certa malcelata idiosincrasia nei suoi confronti.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

Nessun commento:

Posta un commento