giovedì 29 maggio 2014

«Radici nel Cielo»: la tenace ricerca del fine ultimo dell'esistenza nella prospettiva di un credente

(articolo apparso su Prima Pagina del 24 maggio 2014)

Vocabolario Treccani alla mano, alla voce aforisma si legge la seguente definizione: «Proposizione che riassume in brevi e sentenziose parole il risultato di precedenti osservazioni o che, più genericamente, afferma una verità, una regola o una massima di vita pratica».
La premessa, che può apparire pleonastica, è a ben vedere fondamentale: chiunque abbia un minimo di confidenza con la scrittura è infatti ben cosciente delle difficoltà che si incontrano allorché si tenti di racchiudere in poche righe una riflessione che richiederebbe cospicue argomentazioni. L'aforisma è un porto cui si approda dopo lunga navigazione, un «risultato» – per l'appunto – cui si perviene al termine di un faticoso percorso di ricerca. Per assurdo, più la massima è breve, più è travagliato, quasi sempre, il processo di elaborazione. Giusto per intendersi, basti pensare alle classiche paranoie che assillano gli scrittori alla disperata ricerca di un titolo efficace per la loro opera in corso di stampa: come condensare in una decina di parole l'intero contenuto di un volume (ma anche, molto più in piccolo, di un articolo di giornale)?
Ebbene, nel suo ultimo libro (Radici nel Cielo, Fede & Cultura 2014) Gian Carlo Montanari – prolifico autore modenese che ha all'attivo numerose pubblicazioni di storia locale – ha deciso, si passi l'espressione, di complicarsi non poco la vita, nel senso che la sua acuta riflessione (peraltro incentrata su un tema complesso quale l'esistenza di Dio) è interamente affidata a ben 572 aforismi di varia lunghezza. A dispetto però dell'apparente frammentarietà di uno scritto così concepito, è bene sgombrare il campo da equivoci: le massime, se è vero (e inevitabile, per certi versi) che si reggono in piedi da sole, sono studiate secondo un'implicita ma evidente sequenzialità, a delineare un percorso logico capace di legare una pagina con l'altra. I pensieri dell'autore, detto altrimenti, non sono una confusa congerie di parole in libertà, ma al contrario si intrecciano e si completano reciprocamente, rincorrendosi a guisa di staffettisti che si passano il testimone.
Il collante che unisce i singoli trafiletti è, come anticipato, il tema dell'esistenza di Dio, affrontato non di rado quasi a mo' di serrato dialogo con illustri filosofi del passato. Tra tutti, il più ingombrante è certamente Marx, che entra in scena a partire dall'aforisma numero 8. Scrive Montanari: «Karl Marx, dando un carattere materialistico alla sua opera, ha posto le basi della disgregazione comunista del suo comunismo. Doveva dirsi che non sarà mai possibile che l'umanità intera sia atea, poiché è impossibile dimostrare che l'anima e Dio non esistono, essendo noto che la prima non ha peso e massa e il secondo è spirito che aleggia».
In nuce, in queste poche righe è già presente il senso ultimo del libro. Il punto è che l'ateismo assoluto è incompatibile con quella fede nell'umanità che, necessariamente, ogni uomo che si interroga su se stesso deve coltivare. Se accettiamo l'idea che il cristianesimo, secondo la formula nietzschana, abbia avuto il «colpo di genio» di promettere la salvezza (ovvero un futuro nel quale il dolore e la sofferenza acquistano un significato), dobbiamo infatti allo stesso tempo riconoscere che l'intero mondo occidentale – persino quello dei non credenti – è cristianizzato. Il che non significa – si badi – sostenere che non si possa essere sinceramente (ingenuamente?) persuasi che non vi sia alcuna intelligenza superiore che tutto ordina. Come rileva il filosofo Umberto Galimberti in un suo recente libro, affermare che tutto, in Occidente, è cristiano vuol dire che la nostra cultura non può esimersi – contrariamente a quella degli antichi Greci, per esempio – dal guardare al futuro con un certo ottimismo, con l'idea, cioè, che tutto sia migliorabile. Ancora oggi, anche se la nostra civiltà assomiglia sempre più ad un edificio pericolante, non riusciamo ad immaginare l'avvenire se non in termini di progresso e di sviluppo, così come il cristiano non può sfuggire al triplice nesso passato-peccato, presente-espiazione, futuro-salvezza. In quest'ottica, persino Marx era un grande cristiano: nella sua concezione filosofica il passato è ingiustizia, il presente rivoluzione e il futuro giustizia sociale. Stesso discorso per la scienza: al passato corrisponde l'ignoranza, al presente la ricerca, al futuro il progresso. Ora, negare un senso all'esistenza e al contempo nutrire così ampia fiducia nelle potenzialità umane non è forse una contraddizione?
Ma torniamo a Montanari, aforisma 83: «L'errore di chi cerca Dio scientificamente consiste proprio nel porre domande alla materia: come può rispondergli? Solo l'anima parla». Premesso dunque che la grandezza di Dio risiede proprio nella sua incomprensibilità (altrimenti che Dio sarebbe?), vale la pena chiedersi se non sia inevitabile che ogni uomo si interroghi sul senso della propria vita, alla disperata ricerca di un appiglio che certo non può trovare su questa terra. Detto banalmente, davvero possiamo credere che, siccome le nostre possibilità di conoscenza sono limitate, il mondo intero formi una realtà vacua ed insignificante? Cosa ci trattiene dal farla finita, qui e subito, se fosse vero che vivere non è altro che sopravvivere?
La fede, a ben vedere, è speranza che si trasforma in convinzione; è ribellione al niente che ci angoscia; è il credere che, dopo la morte, finalmente comprenderemo il senso dell'esistenza, il perché – irraggiungibile finché siamo materia – che sta all'origine della nostra vita. «Il punto debole dell'ateismo – prosegue Montanari, aforisma 102 – sta nella pretesa di voler bombardare e frantumare con il ragionamento umano l'esistenza del Supremo. Ma è proprio perché non si spiega l'Infinito con il ragionamento (il ragionamento si flette e non piega se stesso) che l'ateismo non regge all'assalto della ragione che ha invocato e si perde». L'ateo, in altre parole, pretende di affermare ciò che non può dimostrare (l'inesistenza di Dio) adducendo come prova non la forza, bensì la debolezza dei propri argomenti (i limiti della ragione); il che, volendo usare una metafora, sarebbe come dire che, di fronte a una montagna impossibile da scalare, è più saggio negare l'esistenza della montagna piuttosto che ammettere l'inadeguatezza dei mezzi che si hanno a disposizione per arrampicarsi.
L'ateismo, dunque, ben lungi dall'essere una dolorosa presa di coscienza, si caratterizza più che altro come una debolezza, come un'incapacità di pensare in grande. E dice bene al riguardo Montanari (aforisma 172): «Una persona religiosa non è più fortunata di altre, come banalmente si sente spesso dire. Semplicemente, è maggiormente consapevole». Troppo facile, infatti, liquidare la fede come un dono che un Dio capriccioso elargisce a pochi eletti: se immaginiamo il credere come una sagoma che a stento emerge dall'ombra, è chiaro che ci sarà sempre sufficiente luce per chi vuole sforzarsi di vedere, ma non abbastanza per chi si rifiuta di affaticare gli occhi. La fede è continua ricerca, non è data una volta per sempre: come una pianta, va innaffiata giorno dopo giorno, altrimenti appassisce (concetto, questo, per il quale vale la pena citare l'aforisma 495: «A un buon prete dissero: "Bisogna preparare le prediche". Lui, mite, borbottò: "Bisogna prepararsi per le prediche"»).
Il problema è che, in una società oramai completamente secolarizzata, il credere viene pressoché universalmente bollato come ammuffito retaggio del passato. Roba da ingenui che non riescono a stare al passo con i tempi. E il risultato è che si sta avverando quanto previsto oltre un secolo fa da Nietzsche a proposito della morte di Dio (il che, si badi, non significa sostenere che Dio non esiste – dal momento che può morire solo ciò che prima era vivo –, bensì che viviamo in un'epoca che ritiene di non avere più bisogno di Dio). L'uomo contemporaneo è completamente immerso in quel nichilismo che il filosofo tedesco definiva con poche, incisive parole: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che significa nichilismo? – che i valori supremi perdono valore». Il che, sia chiaro, è avvenuto anche in passato, ma con una fondamentale differenza: se i valori si svalutavano, era per farne emergere altri. Oggi invece i valori si svalutano per far posto al nulla (al nichilismo, per l'appunto), con la conseguenza che stiamo progressivamente perdendo fiducia nell'umanità (aforisma 315: «L'ateo, per quanto garrulo, è un invincibile pessimista»), angosciati da un futuro che incute timore.
Con lucidità, Montanari coglie l'essenza di quello che potrebbe definirsi il dramma della modernità. Ovvero che un mondo che non crede più a niente (che «non ha più santi né eroi», come recita il verso di una celebre canzone) non assomiglia per nulla – come taluni vorrebbero indurci a credere – a una terra promessa. Significativamente, il libro si conclude con due aforismi che contengono un accorato appello affinché l'umanità inverta la rotta che la sta conducendo, inesorabilmente, verso un minaccioso baratro: «Ha ragione la Santa Sede a rivendicare le radici cristiane dell'Europa. È che però, sopra, sta seccandosi il tronco della pianta» (571); «Necessario continuare a piantare» (572).

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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