(articolo apparso su Prima Pagina del 24 maggio 2014)
Vocabolario Treccani alla mano, alla voce aforisma si legge la seguente
definizione: «Proposizione che riassume in brevi e sentenziose parole il
risultato di precedenti osservazioni o che, più genericamente, afferma una
verità, una regola o una massima di vita pratica».
La premessa, che può apparire pleonastica, è a ben vedere
fondamentale: chiunque abbia un minimo di confidenza con la scrittura è infatti
ben cosciente delle difficoltà che si incontrano allorché si tenti di
racchiudere in poche righe una riflessione che richiederebbe cospicue argomentazioni.
L'aforisma è un porto cui si approda dopo lunga navigazione, un «risultato» –
per l'appunto – cui si perviene al termine di un faticoso percorso di ricerca.
Per assurdo, più la massima è breve, più è travagliato, quasi sempre, il
processo di elaborazione. Giusto per intendersi, basti pensare alle classiche
paranoie che assillano gli scrittori alla disperata ricerca di un titolo
efficace per la loro opera in corso di stampa: come condensare in una decina di
parole l'intero contenuto di un volume (ma anche, molto più in piccolo, di un
articolo di giornale)?
Ebbene, nel suo ultimo libro (Radici nel Cielo, Fede & Cultura 2014) Gian Carlo Montanari –
prolifico autore modenese che ha all'attivo numerose pubblicazioni di storia
locale – ha deciso, si passi l'espressione, di complicarsi non poco la vita,
nel senso che la sua acuta riflessione (peraltro incentrata su un tema
complesso quale l'esistenza di Dio) è interamente affidata a ben 572 aforismi
di varia lunghezza. A dispetto però dell'apparente frammentarietà di uno scritto
così concepito, è bene sgombrare il campo da equivoci: le massime, se è vero (e
inevitabile, per certi versi) che si reggono in piedi da sole, sono studiate
secondo un'implicita ma evidente sequenzialità, a delineare un percorso logico
capace di legare una pagina con l'altra. I pensieri dell'autore, detto altrimenti,
non sono una confusa congerie di parole in libertà, ma al contrario si
intrecciano e si completano reciprocamente, rincorrendosi a guisa di
staffettisti che si passano il testimone.
Il collante che unisce i singoli trafiletti è, come anticipato,
il tema dell'esistenza di Dio, affrontato non di rado quasi a mo' di serrato
dialogo con illustri filosofi del passato. Tra tutti, il più ingombrante è
certamente Marx, che entra in scena a partire dall'aforisma numero 8. Scrive
Montanari: «Karl Marx, dando un carattere materialistico alla sua opera, ha
posto le basi della disgregazione comunista del suo comunismo. Doveva dirsi che
non sarà mai possibile che l'umanità intera sia atea, poiché è impossibile
dimostrare che l'anima e Dio non esistono, essendo noto che la prima non ha
peso e massa e il secondo è spirito che aleggia».
In nuce, in
queste poche righe è già presente il senso ultimo del libro. Il punto è che
l'ateismo assoluto è incompatibile con quella fede nell'umanità che,
necessariamente, ogni uomo che si interroga su se stesso deve coltivare. Se
accettiamo l'idea che il cristianesimo, secondo la formula nietzschana, abbia
avuto il «colpo di genio» di promettere la salvezza (ovvero un futuro nel quale
il dolore e la sofferenza acquistano un significato), dobbiamo infatti allo
stesso tempo riconoscere che l'intero mondo occidentale – persino quello dei
non credenti – è cristianizzato. Il che non significa – si badi – sostenere che
non si possa essere sinceramente (ingenuamente?) persuasi che non vi sia alcuna
intelligenza superiore che tutto ordina. Come rileva il filosofo Umberto
Galimberti in un suo recente libro, affermare che tutto, in Occidente, è
cristiano vuol dire che la nostra cultura non può esimersi – contrariamente a
quella degli antichi Greci, per esempio – dal guardare al futuro con un certo
ottimismo, con l'idea, cioè, che tutto sia migliorabile. Ancora oggi, anche se
la nostra civiltà assomiglia sempre più ad un edificio pericolante, non riusciamo
ad immaginare l'avvenire se non in termini di progresso e di sviluppo, così
come il cristiano non può sfuggire al triplice nesso passato-peccato,
presente-espiazione, futuro-salvezza. In quest'ottica, persino Marx era un
grande cristiano: nella sua concezione filosofica il passato è ingiustizia, il
presente rivoluzione e il futuro giustizia sociale. Stesso discorso per la
scienza: al passato corrisponde l'ignoranza, al presente la ricerca, al futuro
il progresso. Ora, negare un senso all'esistenza e al contempo nutrire così ampia
fiducia nelle potenzialità umane non è forse una contraddizione?
Ma torniamo a Montanari, aforisma 83: «L'errore di chi
cerca Dio scientificamente consiste proprio nel porre domande alla materia:
come può rispondergli? Solo l'anima parla». Premesso dunque che la grandezza di
Dio risiede proprio nella sua incomprensibilità (altrimenti che Dio sarebbe?),
vale la pena chiedersi se non sia inevitabile che ogni uomo si interroghi sul
senso della propria vita, alla disperata ricerca di un appiglio che certo non
può trovare su questa terra. Detto banalmente, davvero possiamo credere che,
siccome le nostre possibilità di conoscenza sono limitate, il mondo intero
formi una realtà vacua ed insignificante? Cosa ci trattiene dal farla finita,
qui e subito, se fosse vero che vivere non è altro che sopravvivere?
La fede, a ben vedere, è speranza che si trasforma in
convinzione; è ribellione al niente che ci angoscia; è il credere che, dopo la
morte, finalmente comprenderemo il senso dell'esistenza, il perché –
irraggiungibile finché siamo materia – che sta all'origine della nostra vita. «Il
punto debole dell'ateismo – prosegue Montanari, aforisma 102 – sta nella
pretesa di voler bombardare e frantumare con il ragionamento umano l'esistenza
del Supremo. Ma è proprio perché non si spiega l'Infinito con il ragionamento
(il ragionamento si flette e non piega se stesso) che l'ateismo non regge
all'assalto della ragione che ha invocato e si perde». L'ateo, in altre parole,
pretende di affermare ciò che non può dimostrare (l'inesistenza di Dio)
adducendo come prova non la forza, bensì la debolezza dei propri argomenti (i
limiti della ragione); il che, volendo usare una metafora, sarebbe come dire
che, di fronte a una montagna impossibile da scalare, è più saggio negare l'esistenza
della montagna piuttosto che ammettere l'inadeguatezza dei mezzi che si hanno a
disposizione per arrampicarsi.
L'ateismo, dunque, ben lungi dall'essere una dolorosa
presa di coscienza, si caratterizza più che altro come una debolezza, come
un'incapacità di pensare in grande. E dice bene al riguardo Montanari (aforisma
172): «Una persona religiosa non è più fortunata di altre, come banalmente si
sente spesso dire. Semplicemente, è maggiormente consapevole». Troppo facile,
infatti, liquidare la fede come un dono che un Dio capriccioso elargisce a
pochi eletti: se immaginiamo il credere come una sagoma che a stento emerge
dall'ombra, è chiaro che ci sarà sempre sufficiente luce per chi vuole
sforzarsi di vedere, ma non abbastanza per chi si rifiuta di affaticare gli
occhi. La fede è continua ricerca, non è data una volta per sempre: come una
pianta, va innaffiata giorno dopo giorno, altrimenti appassisce
(concetto, questo, per il quale vale la pena citare l'aforisma 495: «A un buon
prete dissero: "Bisogna preparare le prediche". Lui, mite, borbottò:
"Bisogna prepararsi per le prediche"»).
Il problema è che, in una società
oramai completamente secolarizzata, il credere viene pressoché universalmente
bollato come ammuffito retaggio del passato. Roba da ingenui che non riescono a
stare al passo con i tempi. E il risultato è che si sta avverando quanto
previsto oltre un secolo fa da Nietzsche a proposito della morte di Dio (il
che, si badi, non significa sostenere che Dio non esiste – dal momento che può
morire solo ciò che prima era vivo –, bensì che viviamo in un'epoca che ritiene
di non avere più bisogno di Dio). L'uomo contemporaneo è completamente immerso
in quel nichilismo che il filosofo tedesco definiva con poche, incisive parole:
«Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al "perché?". Che
significa nichilismo? – che i valori supremi perdono valore». Il che, sia
chiaro, è avvenuto anche in passato, ma con una fondamentale differenza: se i
valori si svalutavano, era per farne emergere altri. Oggi invece i valori si svalutano
per far posto al nulla (al nichilismo, per l'appunto), con la conseguenza che
stiamo progressivamente perdendo fiducia nell'umanità (aforisma 315: «L'ateo,
per quanto garrulo, è un invincibile pessimista»), angosciati da un futuro che
incute timore.
Con lucidità, Montanari coglie
l'essenza di quello che potrebbe definirsi il dramma della modernità. Ovvero
che un mondo che non crede più a niente (che «non ha più santi né eroi», come
recita il verso di una celebre canzone) non assomiglia per nulla – come taluni
vorrebbero indurci a credere – a una terra promessa. Significativamente, il
libro si conclude con due aforismi che contengono un accorato appello affinché
l'umanità inverta la rotta che la sta conducendo, inesorabilmente, verso un minaccioso
baratro: «Ha ragione la Santa Sede a rivendicare le radici cristiane
dell'Europa. È che però, sopra, sta seccandosi il tronco della pianta» (571);
«Necessario continuare a piantare» (572).
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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