(articolo apparso su Prima Pagina del 10 maggio 2014)
Prima di iniziare la lettura, vi
prego di accettare le mie scuse. Devo confessare, infatti, una grave
colpa: come se non bastasse il fatto che da mesi vi tedio,
ogni sabato, con lunghi articoli sul Leopardi di turno, sono
anche un inguaribile, rancoroso, orgoglioso e – lo ammetto – altezzoso
tifoso della Juventus. E proprio sulla Juventus ho deciso, più che altro per
sfizio, di scrivere in settimana alcune righe. Vi troverete, com'è ovvio, un
po' di sana polemica; ma, essendo il calcio pur sempre un gioco, mi auguro (mi
illudo?) che nessuno se ne abbia a male, anche se prevedo che molti di voi
storceranno il naso all'idea che io abbia voluto sacrificare un numero della
mia rubrica per parlare di un argomento così frivolo. Che dirvi? Avete ragione,
ma abbiate pazienza: non lo farò più, promesso.
Forse giusto pochi juventini
puri apprezzeranno l'iniziativa, ma ho
comunque il sospetto che faranno finta di
niente, come avessero qualcosa di cui vergognarsi. Noi bianconeri
siamo così: schivi, per lo più alieni da tutto il clamore strombazzato che
circonda il mondo del pallone. Spesso guardiamo la partita in silenzio o in
solitudine, e ci teniamo tutto dentro, allergici come siamo alle sterili
polemiche da osteria. Se assistiamo ad un incontro in un bar affollato,
vogliamo imporci di non inveire contro l'arbitro, di non insultare
l'avversario: e soffriamo in un angolo, sorseggiando nervosamente la nostra
birra media. Il vero tifoso juventino dovrebbe essere, a ben vedere, incompatibile
con l'italianità del calcio nostrano, dal momento che la cultura dell'alibi e
del sospetto, la strategia del «metto le mani avanti, ché non si sa mai» – così
tipicamente e tristemente italiane – sono, nella maggior parte dei casi, a lui
estranee. Un paese come il nostro – con i suoi stadi ricettacolo di violenti e
le sue trasmissioni che mettono in scena patetici
grilli parlanti, profumatamente pagati per alimentare
assurde polemiche – è, spiace dirlo, inconciliabile con l'essenza dell'orgoglio
bianconero.
Scrivo queste considerazioni, non a caso, al termine di
una stagione agonistica esaltante. Domenica scorsa, 4 maggio 2014, in virtù
dell'inaspettata sconfitta della Roma (seconda in classifica) a
Catania (fanalino di coda), la Juventus allenata da Antonio Conte si è laureata
campione d'Italia senza nemmeno dover scendere in campo, avendo mantenuto
inalterato il vantaggio di otto punti sui capitolini con sole due giornate di
campionato da disputare per questi ultimi. Per Buffon e compagni si tratta del
terzo scudetto consecutivo, il
trentaduesimo nella storia della società torinese, anche se in Federcalcio una
folta schiera di dirigenti armati di calcolatrici nerazzurre difettose si
ostina a contarne due di meno.
Non è però delle passate polemiche che voglio discutere
(anche se, per chi avesse desiderio di approfondirle, mi permetto di segnalare l'indirizzo
internet http://www.ju29ro.com/: si tratta di un sito ovviamente di parte, ma che
ospita, in termini assolutamente civili e rispettosi, seppur talvolta
inevitabilmente polemici, articoli ben scritti – il che, fidatevi, è piuttosto
raro quando si accostano calcio e web –, inchieste, dibattiti e persino severe
critiche rivolte contro la stessa società Juventus). Oggi, a
una settimana dalla conquista del tricolore, vorrei soffermarmi solo sulla
stagione che sta volgendo al termine, quella dei record come molti la
definiscono. Una stagione, per intendersi, nella quale la Juve ha finora
conquistato 96 dei 108 punti disponibili,
vincendo tutte le partite casalinghe e incappando in sole due sconfitte e in
tre pareggi. Che dire? Una marcia trionfale difficilmente giustificabile con gli
aiutini denunciati da Totti (casomai, sarebbero serviti ripetuti aiutoni).
Semplicemente, la Juve di quest'anno è stata troppo più forte di una
concorrenza che (a parte la Roma, comunque distanziata, oggi, di undici
lunghezze) non si è mostrata per nulla all'altezza. Basti dire, giusto per dare
qualche numero, che l'ambizioso Napoli del re dei cinepanettoni De Laurentiis
(ovvero la società che più ha investito nel mercato estivo) si trova
attualmente a 24 punti di distacco; e che le blasonate milanesi viaggiano con
l'imbarazzante ritardo rispettivamente di 39 (Inter) e 42 (Milan) lunghezze. A
voler essere chiari, per scavare questa voragine si potrebbero, per assurdo,
enumerare 8 (Napoli), 13 (Inter) e 14 (Milan) partite nelle quali la Juventus
ha fatto bottino pieno e i tre summenzionati avversari non hanno racimolato
nemmeno un punto. Quanto alla Roma, cui va riconosciuto il merito di avere
disputato un campionato esaltante, ci si accontenti di ricordare il roboante
risultato di 3-0 – in favore degli uomini di Conte, s'intende – dello scontro
diretto: una gara perfetta, che la Juve ha strameritato di vincere. Punto.
Ora, se vivessimo in un paese normale, ci sarebbe ben
poco da aggiungere. Complimenti alla squadra più forte, e arrivederci all'anno
prossimo per la rivincita. Ma che l'Italia non sia un paese normale lo sanno
anche i sassi, e dunque non c'è da stupirsi più di tanto se un trionfo che ha costretto
gli avversari a una resa senza condizioni è stato in più occasioni messo in
discussione da solerti giornalisti difensori delle cause perse. Mi spiego,
anche se immagino abbiate già capito. In Italia – direi da sempre, e di sicuro
da quando sono al mondo – dopo ogni vittoria della Juve ha inizio il patetico
teatrino degli sconfitti, i quali devono necessariamente trovare una
motivazione alternativa alla legge del più forte sul campo per giustificare la
sconfitta della loro squadra del cuore. È una prassi consolidata: l'arbitro
fischia la fine della partita, e subito si scatenano i moviolisti per svelare
all'impaziente pubblico allergico al bianconero presunti rigori dati o non
dati, falli, fuorigioco, proteste, parolacce e scaccolate di naso. Di solito,
nelle partite di cartello in prima serata è l'imparzialissimo Beppe Bergomi ad
indicare la retta via ai commentatori con il suo immancabile «Lo voglio
rivedere, Fabio!», dove il buon Fabio è il pacato e mai sopra le righe
Caressa (telecronista di fede romanista)
e la cosa da rivedere è, ovviamente, una qualsiasi decisione (o mancata decisione)
arbitrale in favore della Juventus. Il senso è
chiaro: sbagliare pro-Juve è il più grave errore che un
fischietto possa commettere.
Ma magari fosse tutto qui. Dopo novanta minuti di Inter,
Milan, Roma, Napoli channel (a seconda dell'avversario di turno), tocca
sorbirsi l'immancabile filippica di allenatori e tesserati
vari. Partono le immagini, e non importa che magari si siano beccate tre
pere: «C'era un rigore», «Era fuorigioco», «Era fallo». Ricordo due partite,
tra le tante. La prima è Juve-Napoli, 3-0 l'impietoso risultato finale.
L'esperto (di cosa, poi, non è dato sapere) Mario Sconcerti intervista Antonio
Conte nel dopogara. Prima domanda, che fa infuriare il mister: «Come sarebbe
stata la partita senza l'iniziale errore del guardalinee?». Oggetto della
contesa, un offside – precisano subito dallo studio – di 21 cm sul goal di
Llorente. Si noti, non di una ventina: di ventuno,
esatti. Come abbiano fatto a non vederli, quei 21, lunghissimi centimetri, è un
mistero. Roba da matti!
La seconda partita è Sassuolo-Juve, terminata 1-3. Nel
primo tempo, vantaggio neroverde con Zaza e pareggio di Tevez. Peccato però,
piagnucola coach Di Francesco dopo il fischio finale, che l'argentino
della Juventus abbia segnato sfruttando una punizione battuta da Pirlo
non nel punto corretto. Un errore imperdonabile dell'arbitro, visto che si era
solo a quaranta metri dalla porta di Pegolo! E come dare torto al mister del
Sassuolo: è stato quel pareggio immeritato la causa del dominio bianconero nella
seconda frazione di gara. Se Buffon ha potuto assistere alla ripresa come uno
spettatore non pagante la colpa è tutta del regista della nazionale e della sua
imperdonabile scorrettezza.
Gli esempi potrebbero continuare (mi vengono in mente le
parole di Mario Giordano al termine del derby della Mole: in quell'occasione il
giornalista tifoso granata – evidentemente in possesso di prove certe che
avrebbe il dovere di rendere pubbliche – giunse a dire che la partita era stata
decisa da un arbitro che «vede e volutamente ed in malafede decide di non
intervenire»), ma forse è meglio fermarsi. Il punto è che in questo paese si
parla in continuazione di meritocrazia, ma quando ad essere meritevole è un
nostro avversario (o semplicemente una persona diversa da noi), in qualunque
campo, facciamo un'enorme fatica a riconoscere, levandoci il cappello, i suoi
successi. Quanto poi ai nostri fallimenti, siamo davvero
ridicoli: se non superiamo un esame è sempre colpa del professore che ci ha
preso in antipatia; se non vinciamo un concorso è perché era truccato; se perdiamo
le elezioni è per i brogli. E se la Juve trionfa è perché è potente e ruba. Lo
sanno tutti, persino i bambini. Addirittura, se la Juve vince è anche perché
gli avversari si impegnano poco. Parola del mister giallorosso Rudi Garcia.
In Italia, quando si perde, è tutto un complotto o una
mafia. Per carità, di cose che non vanno ce ne sono parecchie. Ma, guarda caso,
quando un esame o un concorso lo si supera è sempre perché
si è studiato; quando si vincono le elezioni è sempre per volontà dei
cittadini. In questo lo sport è una metafora della vita: per imparare a
vincere, bisogna prima saper perdere. Dubito però che la Juve potrà mai
liberarsi da questo accerchiamento: è la squadra più odiata perché vince
troppo. È il nemico, non l'avversario (e quindi ben vengano le sassaiole contro
il pullman che trasporta i giocatori, le devastazioni del settore ospiti dello
Stadium, gli insulti e i piagnistei degli addetti ai lavori). La Vecchia
Signora, per citare Buffon, «è l'alibi di chi non vince mai», un comodo
pretesto per giustificare gli insuccessi. Inutile illudersi: sarà
sempre così. A meno che il presidente Agnelli non decida, in futuro, di
iscrivere la sua squadra alla Premier League.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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