venerdì 26 dicembre 2014

«E per rimedio soltanto il dormire»: la riflessione leopardiana di Francesco Guccini

(articolo apparso su Prima Pagina dell'8 settembre 2013)



Mio vecchio amico di giorni e pensieri / da quanto tempo che ci conosciamo,
venticinque anni son tanti e diciamo / un po' retorici che sembra ieri.
Invece io so che è diverso e tu sai / quello che il tempo ci ha preso e ci ha dato:
io appena giovane sono invecchiato, / tu forse giovane non sei stato mai.
Ma d'illusioni non ne abbiamo avute, / o forse si, ma nemmeno ricordo,
tutte parole che si son perdute / con la realtà incontrata ogni giorno.
Chi glielo dice a chi è giovane adesso / di quante volte si possa sbagliare,
fino al disgusto di ricominciare / perché ogni volta è poi sempre lo stesso.
Eppure il mondo continua e va avanti / con noi o senza e ogni cosa si crea
su ciò che muore e ogni nuova idea / su vecchie idee e ogni gioia su pianti.
Ma più che triste ora è buffo pensare / a tutti i giorni che abbiamo sprecati,
a tutti gli attimi lasciati andare / e ai miti belli delle nostre estati.
Dopo l'inverno e l'angoscia in città / quei lunghi mesi sdraiati davanti,
liberazione del fiume e dei monti / e linfa aspra della nostra età.
Quei giorni spesi a parlare di niente / sdraiati al sole inseguendo la vita,
come l'avessimo sempre capita, / come qualcosa capito per sempre.
Il mio Leopardi, le tue teologie: / «Esiste Dio?». Le risate più pazze,
le sbornie assurde, le mie fantasie, / le mie avventure in città con ragazze.
Poi quell'amore alla fine reale / tra le canzoni di moda e le danze:
«È in gamba sai, legge Edgar Lee Masters». Mi ha detto no, non dovrei mai pensare.

Le sigarette con rabbia fumate, / i blue jeans vecchi e le poche lire,
sembrava che non dovesse finire, / ma ad ogni autunno finiva l'estate.
Poi tutto è andato e diciamo siam vecchi, / ma cosa siamo e che senso ha mai questo
nostro cammino di sogni fra specchi, / tu che lavori quand'io vado a letto.
Io dico sempre non voglio capire, / ma è come un vizio sottile e più penso
più mi ritrovo questo vuoto immenso / e per rimedio soltanto il dormire.
E poi ogni giorno mi torno a svegliare / e resto incredulo, non vorrei alzarmi,
ma vivo ancora e son lì ad aspettarmi / le mie domande, il mio niente, il mio male.
Quando nell'estate del 2004 fu informato che la sua Canzone per Piero era stata inclusa tra i documenti che gli studenti maturandi avevano potuto consultare per svolgere il tema di ambito artistico-letterario, è possibile che Francesco Guccini, pur lusingato per la nobile "compagnia" di autori quali Dante, Verga e Manzoni, abbia pensato: «Strano, manca il mio Leopardi». Non è un segreto infatti che il cantautore modenese apprezzi enormemente l'opera del grande scrittore di Recanati, i cui versi hanno ispirato diverse sue celebri ballate. In Canzone per Piero il nome del poeta è citato in una delle strofe finali, e di certo non è un caso. Forse non è stato un unico componimento, in prosa o in versi, a fare da musa a Guccini: certo però è che, senza troppe forzature, un accostamento tra Francesco (il cantautore) e Piero da una parte e Porfirio e Plotino – i due filosofi neoplatonici protagonisti di un noto dialogo delle Operette morali – dall'altra consente quantomeno di ipotizzare una fonte plausibile.
In Canzone per Piero Guccini esordisce rivolgendosi all'amico ed evocando il tempo passato trascorso insieme. Venticinque anni separano i due dal loro primo incontro: possono sembrare tanti, eppure «sembra ieri». Il ricordo, come per il Leopardi di Alla luna, edulcora anche i momenti di più acuta sofferenza, col risultato che persino un quarto di secolo pare ridursi a poche sensazioni, a pochi attimi.
Francesco e Piero sono però coscienti che, dopo tanto tempo, è cambiata la percezione del presente, ed è maturata la consapevolezza reciproca di non essere mai stati realmente giovani. «D'illusioni», tipiche della giovinezza, «non ne abbiamo avute»: la prospettiva cioè di concedersi delle aspettative per il futuro si è sempre scontrata «con la realtà incontrata ogni giorno».
Gli sfrenati ottimismi dei giovani d'oggi (si noti che la canzone è del 1974, in piena età della contestazione) sono destinati a sbattere contro il muro dell'errore, che si ripete eterno, «fino al disgusto di ricominciare». Un po' come la leopardiana Silvia, personificazione della speranza, che cade «all'apparir del vero».
«Eppure il mondo continua e va avanti», prosegue Guccini, ed è inutile (e quindi allo stesso tempo sia «triste» che «buffo») rimpiangere il passato, riscrivere la propria storia personale con i "se". Ma l'uomo è come costretto a ricordare: ed ecco quindi che affiorano inesorabili le immagini dei bei momenti trascorsi sui monti (il riferimento è a Pavana, dove oggi il cantautore vive), lontano dall'«angoscia» della città, simbolo dei turbamenti interiori in contrapposizione con l'Appennino, luogo senza luoghi dove un tempo pareva possibile «parlare di niente sdraiati al sole inseguendo la vita».
Il dialogo tra i due amici poteva vertere indifferentemente su argomenti elevati («il mio Leopardi, le tue teologie») o fatti banali, come «le sbornie assurde», «le sigarette con rabbia fumate», i pochi soldi a disposizione o le avventure amorose. Una di queste, in particolare, colpì il giovane Francesco. Ma non si trattava di una ragazza come le altre: leggeva le poesie di Edgar Lee Masters, il che pare quasi una giustificazione fornita a Piero di quell'ingenuo abbandono ad un'avventura sentimentale che, ora è chiaro, non avrebbe potuto procurare nient'altro che disillusione e dolore. Ed è per questo, riflette il Francesco di oggi, che «non dovrei mai pensare».
Che senso ha quindi, da vecchi, «questo nostro cammino», imprevedibile come le immagini (i «sogni») multiformi riflesse «da specchi»? Francesco ribadisce quanto detto poco prima: «Io dico sempre non voglio capire, ma è come un vizio sottile e più penso più mi ritrovo questo vuoto immenso». Ovvero, come Filemazio che nella celebre Bisanzio (altro capolavoro gucciniano) confonde vita e morte e si addormenta, sarebbe meglio non pensare, l'unico rimedio sarebbe il dormire: ma tutto è inutile, perché l'uomo non può fare a meno di riflettere sul senso della propria vita.
Il sonno, ovvero la morte delle aspettative e delle paure legate al futuro, è una chimera. Francesco è «incredulo» tutte le volte che si sveglia, ma non ha alternative: vive, o meglio convive, con le sue domande, il suo niente, il suo male, e forse l'unico conforto, ciò che dà un briciolo di senso alla sua vita, è proprio la condivisione delle sue angosce con Piero. È l'amico, e più in generale il legame affettivo con le persone care, a destare Francesco dal suo sonno e ad impedire che diventi perpetuo.
Anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio due amici discorrono sul senso dell'esistenza. Porfirio, che avverte un forte «fastidio della vita», un tedio «che si assomiglia a dolore e a spasimo», non riesce ad accettare «la vanità di ogni cosa» e pertanto difende la liceità del suicidio come gesto consapevole di ribellione contro la natura «matrigna», cagione di tutti i mali dell'uomo.
Plotino, pur accettando l'idea che la vita sia un «quasi carcere», cerca di distogliere l'amico dall'intenzione di uccidersi: ma ogni sua argomentazione è efficacemente contrastata da Porfirio, per il quale la morte è un «porto», non una «tempesta». Nemmeno la religione può dare conforto, dal momento che promette un «guiderdone» (una ricompensa) la cui presunta «dolcezza […] è nascosa, ed arcana», e la cui inconsistenza fa apparire persino una «crudeltà» ogni illusione di vita ultraterrena. Meglio dunque, direbbe Guccini, il sonno; meglio, afferma Porfirio, la cessazione di ogni male, la morte.
Non ha senso, del resto, sostenere che l'«atto dell'uccidersi» sia «contrario a natura»: come può dirsi tale, prosegue Porfirio, l'unico modo che hanno gli uomini di sfuggire all'infelicità, essendo istinto naturale avere «amore del nostro meglio»? E poi, se anche così fosse, per quale motivo all'uomo – membro di una civiltà che ha dimenticato i «costumi primitivi e silvestri» – è lecito vivere ma non «morire contro natura»?
L'uomo, dopo avere abbandonato, con la ragione, il primitivo stato di natura, ne ha acquisito un altro, incivilendosi: perché dunque, continua Porfirio, «questo solo atto del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma dalla natura primitiva», che è quella che impedisce agli animali di desiderare la morte? La verità è che «la noia stessa e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita»; il che vale anche (e anzi, soprattutto) per coloro che, trovandosi «in sulla cima di quella che chiamasi felicità umana», non possono sperare che il domani sia meglio dell'oggi.
A queste argomentazioni Plotino fatica a ribattere, ed è anzi costretto infine ad ammettere che possa definirsi «ragionevole l'uccidersi». Nondimeno, egli ritiene che «quantunque sia [...] diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non è ridotta a nulla»; e che pertanto sia innato nell'uomo un istinto di conservazione della propria vita che merita quantomeno di essere rispettato, pur se incomprensibile razionalmente. Del resto, se la vita «è cosa di tanto piccolo rilievo», non ha senso che ci si preoccupi più di tanto «né di ritenerla né di lasciarla».
Questa riflessione precede il ragionamento conclusivo di Plotino, l'unico, in realtà, che Porfirio non possa contestare. Il suicidio, cioè, è un atto di egoismo che un uomo non può permettersi di compiere, poiché «non far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici» rappresenta «il men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Il peso della noia che rende detestabile la vita può essere alleviato solo dalla condivisione della sofferenza con le persone care, alle quali non è giusto, è «inumano» arrecare deliberatamente dolore. La vita, del resto, è cosa breve: e «quando la morte verrà – conclude Plotino rivolgendosi all'amico –, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora».
Al vivere, dunque non c'è alternativa. La morte, come il sonno di Guccini, sarà la fine del nostro patire, ma è una frontiera che non possiamo desiderare di oltrepassare, è un qualcosa che ci sfugge, come la vita. La consapevolezza di essere importanti per qualcuno (e qualcuno che tiene a noi c'è sempre) ci desta dal sonno in cui vorremmo inconsciamente sprofondare, ci proibisce l'egoismo della ribellione: come Francesco ritrova in Piero un pretesto per ricordare, sforzandosi di capire il passato alla luce del presente, così Porfirio accetta, discutendo con Plotino, di mettere in dubbio le proprie convinzioni. E concede a Plotino la possibilità di dimostrare che quella di congedarsi dal mondo non può essere una scelta proprio perché in fondo è lo stesso dialogo, l'idea di condividere la sofferenza con l'amico, che gli dà conforto.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi

Nessun commento:

Posta un commento