martedì 2 dicembre 2014

«Dialogo d’Ercole e di Atlante»: l’ignavia del mondo moderno

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 novembre 2014)

Nel Dialogo d’Ercole e di Atlante Leopardi propone una versione comico-satirica della secolare disputa tra antichi e moderni, accesasi in Francia alla fine del Seicento e ancora viva ai suoi tempi (il celeberrimo Discorso sulla libertà degli antichi, paragonata alla libertà dei moderni di Benjamin Constant, per esempio, viene pronunciato nel 1819, cinque anni prima dell’operetta). Il mondo – si chiede indirettamente il poeta di Recanati – si è evoluto o è regredito? Gli uomini di oggi che giudizio meritano se confrontati con quelli del passato, in particolare con i popoli dell’antichità classica? A discorrere di queste tematiche Leopardi fa intervenire due personaggi della mitologia, Ercole e Atlante (il Titano che prese parte alla guerra di Crono contro gli dei dell’Olimpo e che Zeus punì con l’obbligo di sorreggere la Terra sulle spalle).
Così il primo, nell’incipit, si rivolge al secondo: «Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono [il riferimento è alla tredicesima fatica di Ercole, il quale rimpiazzò provvisoriamente Atlante dopo averlo convinto a rubare i pomi d’oro nell’orto delle Esperidi, ma poi glieli sottrasse con uno stratagemma], tanto che tu pigli fiato e ti riposi un poco».
La risposta di Atlante è piuttosto singolare: siccome, egli afferma, «il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per custodirmi dalla neve, mi pesa più», non c’è alcun bisogno di riprendere fiato. La Terra, infatti, si è ridotta a poca cosa, tanto che potrebbe tranquillamente essere sorretta attaccata «ciondolone a un pelo della barba».
A queste parole, Ercole reagisce con stupore. Com’è possibile, si domanda, che il mondo si sia tanto alleggerito rispetto al tempo della sua fatica? Atlante non sa dare una risposta, ma invita il suo interlocutore a provare di persona a sorreggere la Terra per qualche istante. Ercole accetta, e subito nota un’altra anomalia: «L’altra volta che io la portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si rassomiglia a un oriuolo [orologio] che abbia rotta la molla; e quanto al ronzare, io non vi odo un zitto [non avverto il minimo rumore]».
Ancora una volta, Atlante non è in grado di fornire una spiegazione. Afferma però che «è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni moto e ogni romore sensibile», tanto che – aggiunge – in passato gli era venuto il dubbio che fosse morto. Tuttavia – prosegue –, siccome i morti si decompongono e la Terra non ha invece emanato nel tempo alcun «puzzo», è evidente che il mondo sia in realtà ancora vivo, ed è lecito pensare che si sia trasformato in pianta. 
«Io piuttosto credo che dorma», replica Ercole; e, onde evitare che qualcuno lo scambi per morto e gli dia fuoco, propone di escogitare qualcosa per destarlo dal sonno. Atlante è d’accordo, così Ercole suggerisce di usare il mondo come una palla con cui giocare. Il percolo – ribatte prontamente il Titano – è che Giove si infastidisca e prenda provvedimenti punitivi, un po’ come fece con Fetonte, il figlio di Apollo che fu precipitato nel Po per aver messo in pericolo la Terra con la sua guida spericolata del carro che trasporta il Sole. Ma Ercole non ha dubbi: a suo avviso Giove non dirà nulla perché l’intenzione di svegliare la Terra è buona, non come quelle di Fetonte, interessato solo a pavoneggiarsi e a «fare una bella mostra di sé tra gli Dei del cielo».
Ha così inizio il gioco della palla, anche se Atlante si mostra sin da subito titubante e si raccomanda, preoccupato, che il suo interlocutore non faccia cadere la Terra. I due si passano la sfera colpendola con le mani, finché Ercole non manca la presa a causa di un tiro troppo basso. L’incidente sembra comunque totalmente privo di conseguenze: «Oimè, poverina, come stai? ti senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima, e mostra che tutti dormano come prima».
Atlante, che teme la punizione del Signore dell’Olimpo, non vuole però più sentire ragioni, e interrompe il gioco: «Lasciamela per tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è seguito per tua cagione».
La replica di Ercole, che vale la pena citare per intero, è il preludio alla conclusione dell’operetta e ne indica il senso: «Così farò. È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio, ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso».
Il senso della riflessione di Orazio è che l’uomo giusto non teme la rovina del mondo, dal momento che per lui il rispetto dei doveri morali ha la precedenza su qualunque altra preoccupazione. Ma dunque – si chiede Ercole –, siccome il mondo è caduto e nessuno ha battuto ciglio, bisogna inferire che tutti gli uomini siano giusti? Atlante, nella battuta finale dell’operetta, risponde con ironia: «Chi dubita della giustizia degli uomini?».
Il mondo moderno, in sostanza, per Leopardi si è come addormentato. Il suo sonno è sinonimo di ignavia, di quell’indolenza che rende fiacco e privo di volontà l’agire umano. Il torpore è così profondo che resiste persino a una potente scossa, tanto che nulla sembra in grado di contrastarlo efficacemente. Per il genere umano, in altre parole, non c’è futuro: esso è vivo solo nel senso che sopravvive, si trascina senza scopo; ma, di fatto, è come se fosse morto.
Il Dialogo d’Ercole e di Atlante rappresenta pertanto un tipico esempio del pessimismo leopardiano, anche se è bene tenere presente che sotto accusa finiscono più che altro le storture dell’età moderna (e non quindi l’umanità in quanto tale), laddove invece per l’antichità è implicito un elogio da parte dell’autore dell’Infinito. Nel momento in cui Ercole e Atlante ricordano, infatti, che un tempo la Terra era più pesante ed emetteva un ronzio (indice di vitalità), indirettamente ammettono che un mondo migliore sia possibile, se non altro perché è esistito in passato. Resta da chiedersi, pertanto, per quale ragione l’umanità sia sprofondata in un sonno atrofizzante. Cos’è che rende il presente così meschino e l’uomo così apatico?
Leopardi non dà una risposta precisa nell’operetta, ma è lecito supporre che alla base della crisi della civiltà occidentale egli individui l’individualismo esasperato che contraddistingue l’uomo moderno, indifferente rispetto a tutto ciò che non lo coinvolge in prima persona. Gli antichi, infatti, avevano ben radicato il senso della collettività, tanto che il singolo poteva esercitare la propria libertà solo come parte di un tutto, come componente di un insieme. La società borghese dell’Ottocento sta invece progressivamente allontanandosi da questo modello: l’individuo viene prima di tutto, e la libertà non è più concepita come positiva (libertà di), ma essenzialmente come negativa (libertà da). All’uomo moderno, in sostanza, sta a cuore solo l’interesse personale (materiale ed economico), mentre manca completamente la disponibilità a sacrificarsi sul serio per qualcosa.
È questo, in definitiva, il significato del sonno cui allude Ercole. L’uomo moderno è addormentato nel senso che non è più in grado di recepire i cambiamenti, tutto preso com’è dalle proprie faccende personali. Anche se il mondo andasse in rovina, a lui importerebbe solo trovare un modo per sopravvivere come individuo. Ciò che conta nell’età moderna è essenzialmente il profitto, la capacità cioè di arricchirsi, sempre come singolo – s’intende –, mai come popolo. Il mondo si è fatto leggero perché la volontà degli uomini di operare per la grandezza della specie è stata completamente sopraffatta dall’egoismo.

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