(articolo apparso su Prima Pagina del 29 novembre 2014)
Nel Dialogo d’Ercole
e di Atlante Leopardi propone una versione comico-satirica della secolare disputa
tra antichi e moderni, accesasi in Francia alla fine del Seicento e ancora viva
ai suoi tempi (il celeberrimo Discorso
sulla libertà degli antichi, paragonata alla libertà dei moderni di
Benjamin Constant, per esempio, viene pronunciato nel 1819, cinque anni prima
dell’operetta). Il mondo – si chiede indirettamente il poeta di Recanati – si è
evoluto o è regredito? Gli uomini di oggi che giudizio meritano se confrontati
con quelli del passato, in particolare con i popoli dell’antichità classica? A
discorrere di queste tematiche Leopardi fa intervenire due personaggi della
mitologia, Ercole e Atlante (il Titano che prese parte alla guerra di Crono
contro gli dei dell’Olimpo e che Zeus punì con l’obbligo di sorreggere la Terra
sulle spalle).
Così il primo, nell’incipit,
si rivolge al secondo: «Padre Atlante, Giove mi manda, e vuole che io ti saluti
da sua parte, e in caso che tu fossi stracco di cotesto peso, che io me lo
addossi per qualche ora, come feci non mi ricordo quanti secoli sono [il
riferimento è alla tredicesima fatica di Ercole, il quale rimpiazzò provvisoriamente
Atlante dopo averlo convinto a rubare i pomi d’oro nell’orto delle Esperidi, ma
poi glieli sottrasse con uno stratagemma], tanto che tu pigli fiato e ti riposi
un poco».
La risposta di Atlante è piuttosto singolare: siccome,
egli afferma, «il mondo è fatto così leggero, che questo mantello che porto per
custodirmi dalla neve, mi pesa più», non c’è alcun bisogno di riprendere fiato.
La Terra, infatti, si è ridotta a poca cosa, tanto che potrebbe tranquillamente
essere sorretta attaccata «ciondolone a un pelo della barba».
A queste parole, Ercole reagisce con stupore. Com’è
possibile, si domanda, che il mondo si sia tanto alleggerito rispetto al tempo
della sua fatica? Atlante non sa dare una risposta, ma invita il suo
interlocutore a provare di persona a sorreggere la Terra per qualche istante.
Ercole accetta, e subito nota un’altra anomalia: «L’altra volta che io la
portai, mi batteva forte sul dosso, come fa il cuore degli animali; e metteva
un certo rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora quanto al battere, si
rassomiglia a un oriuolo [orologio] che abbia rotta la molla; e quanto al
ronzare, io non vi odo un zitto [non avverto il minimo rumore]».
Ancora una volta, Atlante non è in grado di fornire una
spiegazione. Afferma però che «è già gran tempo, che il mondo finì di fare ogni
moto e ogni romore sensibile», tanto che – aggiunge – in passato gli era venuto
il dubbio che fosse morto. Tuttavia – prosegue –, siccome i morti si decompongono
e la Terra non ha invece emanato nel tempo alcun «puzzo», è evidente che il
mondo sia in realtà ancora vivo, ed è lecito pensare che si sia trasformato in
pianta.
«Io piuttosto credo che dorma», replica Ercole; e, onde
evitare che qualcuno lo scambi per morto e gli dia fuoco, propone di escogitare
qualcosa per destarlo dal sonno. Atlante è d’accordo, così Ercole suggerisce di
usare il mondo come una palla con cui giocare. Il percolo – ribatte prontamente
il Titano – è che Giove si infastidisca e prenda provvedimenti punitivi, un po’
come fece con Fetonte, il figlio di Apollo che fu precipitato nel Po per aver
messo in pericolo la Terra con la sua guida spericolata del carro che trasporta
il Sole. Ma Ercole non ha dubbi: a suo avviso Giove non dirà nulla perché l’intenzione
di svegliare la Terra è buona, non come quelle di Fetonte, interessato solo a
pavoneggiarsi e a «fare una bella mostra di sé tra gli Dei del cielo».
Ha così inizio il gioco della palla, anche se Atlante si
mostra sin da subito titubante e si raccomanda, preoccupato, che il suo
interlocutore non faccia cadere la Terra. I due si passano la sfera colpendola
con le mani, finché Ercole non manca la presa a causa di un tiro troppo basso. L’incidente
sembra comunque totalmente privo di conseguenze: «Oimè, poverina, come stai? ti
senti male a nessuna parte? Non s’ode un fiato e non si vede muovere un’anima,
e mostra che tutti dormano come prima».
Atlante, che teme la punizione del Signore dell’Olimpo,
non vuole però più sentire ragioni, e interrompe il gioco: «Lasciamela per
tutte le corna dello Stige, che io me la raccomodi sulle spalle; e tu ripiglia
la clava, e torna subito in cielo a scusarmi con Giove di questo caso, ch’è
seguito per tua cagione».
La replica di Ercole, che vale la pena citare per intero,
è il preludio alla conclusione dell’operetta e ne indica il senso: «Così farò.
È molti secoli che sta in casa di mio padre un certo poeta, di nome Orazio,
ammessoci come poeta di corte ad istanza di Augusto, che era stato deificato da
Giove per considerazioni che si dovettero avere alla potenza dei Romani. Questo
poeta va canticchiando certe sue canzonette, e fra l’altre una dove dice che l’uomo
giusto non si muove se ben cade il mondo. Crederò che oggi tutti gli uomini
sieno giusti, perché il mondo è caduto, e niuno s’è mosso».
Il senso della riflessione di Orazio è che l’uomo giusto
non teme la rovina del mondo, dal momento che per lui il rispetto dei doveri
morali ha la precedenza su qualunque altra preoccupazione. Ma dunque – si
chiede Ercole –, siccome il mondo è caduto e nessuno ha battuto ciglio, bisogna
inferire che tutti gli uomini siano giusti? Atlante, nella battuta finale dell’operetta,
risponde con ironia: «Chi dubita della giustizia degli uomini?».
Il mondo moderno, in sostanza, per Leopardi si è come
addormentato. Il suo sonno è sinonimo di ignavia, di quell’indolenza che rende
fiacco e privo di volontà l’agire umano. Il torpore è così profondo che resiste
persino a una potente scossa, tanto che nulla sembra in grado di contrastarlo
efficacemente. Per il genere umano, in altre parole, non c’è futuro: esso è
vivo solo nel senso che sopravvive, si trascina senza scopo; ma, di fatto, è
come se fosse morto.
Il Dialogo d’Ercole
e di Atlante rappresenta pertanto un tipico esempio del pessimismo leopardiano,
anche se è bene tenere presente che sotto accusa finiscono più che altro le
storture dell’età moderna (e non quindi l’umanità in quanto tale), laddove
invece per l’antichità è implicito un elogio da parte dell’autore dell’Infinito. Nel momento in cui Ercole e
Atlante ricordano, infatti, che un tempo la Terra era più pesante ed emetteva
un ronzio (indice di vitalità), indirettamente ammettono che un mondo migliore
sia possibile, se non altro perché è esistito in passato. Resta da chiedersi,
pertanto, per quale ragione l’umanità sia sprofondata in un sonno atrofizzante.
Cos’è che rende il presente così meschino e l’uomo così apatico?
Leopardi non dà una risposta precisa nell’operetta, ma è
lecito supporre che alla base della crisi della civiltà occidentale egli
individui l’individualismo esasperato che contraddistingue l’uomo moderno,
indifferente rispetto a tutto ciò che non lo coinvolge in prima persona. Gli
antichi, infatti, avevano ben radicato il senso della collettività, tanto che
il singolo poteva esercitare la propria libertà solo come parte di un tutto,
come componente di un insieme. La società borghese dell’Ottocento sta invece
progressivamente allontanandosi da questo modello: l’individuo viene prima di
tutto, e la libertà non è più concepita come positiva (libertà di), ma essenzialmente
come negativa (libertà da). All’uomo moderno, in sostanza, sta a cuore solo
l’interesse personale (materiale ed economico), mentre manca completamente la
disponibilità a sacrificarsi sul serio per qualcosa.
È questo, in definitiva, il significato del sonno cui
allude Ercole. L’uomo moderno è addormentato nel senso che non è più in grado
di recepire i cambiamenti, tutto preso com’è dalle proprie faccende personali.
Anche se il mondo andasse in rovina, a lui importerebbe solo trovare un modo per
sopravvivere come individuo. Ciò che conta nell’età moderna è essenzialmente il
profitto, la capacità cioè di arricchirsi, sempre come singolo – s’intende –,
mai come popolo. Il mondo si è fatto leggero perché la volontà degli uomini di
operare per la grandezza della specie è stata completamente sopraffatta
dall’egoismo.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
MOLTO BRAVI
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