mercoledì 4 marzo 2015

«Il visconte dimezzato», l’illusione della completezza dell’animo umano

(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2015)

«Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri; avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo, avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».
Con queste parole Italo Calvino presentava il suo romanzo a trent’anni di distanza dalla prima edizione: era infatti il 1983, e lo scrittore ligure rilasciava un’intervista nella quale intendeva fornire una chiave di lettura de Il visconte dimezzato, uscito presso Einaudi nel 1952 e nel frattempo divenuto celebre. In sostanza, Calvino è affascinato dal tema del doppio, dall’idea cioè – che si lega a una ben delineata tradizione letteraria, facente capo per lo più a Lo strano caso del dr. Jekyll e di Mr. Hyde di Stevenson – che in ogni uomo coesistano due nature, tra loro antitetiche ma imprescindibili l’una per l’altra. Il romanzo, però, non è una trattazione scientifica, e quindi occorre tenere ben presenti le legittime aspettative del lettore, che desidera “divertirsi” pagina dopo pagina, a prescindere dal significato più profondo che l’autore intende trasmettere. «Io penso che il divertimento sia una cosa seria», conclude Calvino, sottintendendo con ciò che compito della narrativa è far riflettere attraverso il racconto di una storia, fermo restando che i livelli di lettura sono di fatto soggettivi. 
Il romanzo si apre con una scena militare: accompagnato dal suo scudiero Curzio, il visconte Medardo di Terralba giunge all’accampamento cristiano in Boemia, nel corso di una guerra contro i turchi. L’indomani, allorché prende parte alla sua prima battaglia, viene colpito in pieno petto da una palla di cannone, restando in terra «orrendamente mutilato». Del visconte resta intatta una sola metà del corpo (la destra), prontamente medicata, fasciata e ricucita dai medici dell’ospedale da campo. «Adesso era vivo e dimezzato», conclude il narratore – ovvero un giovane nipote di Medardo, di cui non viene rivelato il nome –, sancendo di fatto il passaggio ad un racconto di tipo fiabesco, caratterizzato dalla libera fusione di elementi realistici e fatti inverosimili.
Il racconto riprende con il ritorno del visconte a Terralba. Ma il Medardo rientrato dalla guerra non è quello che la gente ricorda. In breve, i sudditi sono costretti a prendere atto del fatto che del loro signore è sopravvissuta solo la parte malvagia, che ama sbizzarrirsi perpetrando le più assurde nefandezze. Racconta infatti il nipote narratore: «Dove si sentiva il rumor di zoccoli del suo cavallo tutti scappavano […] e portavano via i bambini e gli animali, e temevano per le piante, perché la cattiveria del visconte non risparmiava nessuno e poteva scatenarsi da un momento all’altro nelle azioni più impreviste e incomprensibili». Medardo, in effetti, è irriconoscibile: dapprima taglia in due un’averla inviatagli dal padre – che l’aveva addestrata a volare nelle stanze del figlio –, causando la morte di crepacuore dell’anziano genitore; poi offre funghi velenosi al nipote, taglia a metà piante e animali, fa costruire una sofisticata forca multipla per l’impiccagione di semplici bracconieri e «per appender dieci gatti alternati ogni due rei», appicca il fuoco a fienili e abitazioni, opprime gli ugonotti residenti a Col Gerbido e condanna la vecchia balia Sebastiana – colpevole di averlo più volte rimproverato – all’esilio tra i lebbrosi, nella comunità di Pratofungo.
Nel frattempo il nipote del visconte – che ha pure trovato modo di fare visita a Sebastiana, scampata al contagio grazie alla perfetta conoscenza delle erbe curative – trascorre buona parte delle sue giornate in compagnia del dottor Trelawney, un medico inglese naufragato nei pressi di Terralba dopo essere stato a lungo membro dell’equipaggio dell’esploratore James Cook. I due conducono stravaganti ricerche sui fuochi fatui, appostandosi di notte nei cimiteri e girovagando tra i boschi: di fatto, si interessano di tutto meno che della medicina e dei metodi per curare gli esseri umani, e sono ben consapevoli di dover mantenere il più possibile le distanze dal visconte.
Questi è ormai per tutti una seria minaccia. E quando si invaghisce della pastorella Pamela, la giovane è ben consapevole del pericolo che corre, e lo respinge. Per tutta risposta, Medardo infierisce sui suoi genitori, convincendoli a concedere la mano della figlia: ma Pamela, determinata a tenere duro, abbandona la famiglia e fugge nei boschi.
Poco dopo avviene il colpo di scena: nei pressi di Pratofungo, il visconte fa visita al nipote, intento a pescare anguille, e lo salva dal morso di un ragno velenoso. In breve, i gesti magnanimi di Medardo si moltiplicano (aiuta bambini e povere vedove, elargisce doni, si prende cura degli animali, soccorre i lebbrosi…), finché gli abitanti di Terralba non realizzano che del visconte è ritornata anche la metà buona (la parte sinistra), anch’essa evidentemente salvatasi per miracolo in terra di Boemia. Il risultato è che ora esistono due versioni di Medardo: il Gramo, responsabile degli atti di malvagità, e il Buono, altruista fin all’eccesso.
Per ironia della sorte, anche quest’ultimo si innamora di Pamela, ma al pari del Gramo è respinto. Alla fine, tuttavia, l’insistenza ostinata delle due metà del visconte ha la meglio sulla resistenza della ragazza, la quale acconsente al matrimonio, pur prendendosi gioco dei maldestri tentativi dei due Medardo (il Gramo, infatti, aveva fatto pressioni sulla madre di Pamela perché convincesse la figlia a sposare il Buono, con l’intento poi di rivendicare come propria la futura moglie di Medardo di Terralba; il Buono aveva invece confessato al padre di lei di voler abbandonare le proprie terre, così che Pamela potesse sposare il Gramo. Risultato: quest’ultimo si convince di poter sposare direttamente Pamela, senza ricorrere al suo iniziale stratagemma, mentre il Buono – rincuorato dalla giovane, che gli assicura di volerlo come marito – ritorna sulla sua decisione per non farle un torto). L’equivoco si scioglie ovviamente il giorno delle nozze: indispettito, il Gramo sfida il Buono a duello, ma entrambi si feriscono nel punto in cui erano stati suturati dopo l’incidente della palla di cannone. Solo l’intervento provvidenziale del dottor Trelawney salva il visconte, le cui metà vengono ricucite e fasciate in modo da combaciare nuovamente l’una con l’altra. «Finalmente avrò uno sposo con tutti gli attributi», commenta infine soddisfatta Pamela.
Il romanzo si chiude con l’addio del dottor Trelawney, che riprende il suo posto nell’equipaggio di James Cook senza aver avuto modo di salutare il nipote di Medardo, distrattosi nei boschi. Queste le parole conclusive del giovane narratore: «Lo seppi troppo tardi e presi a correre verso la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con sé! Non può lasciarmi qui, dottore!”. Ma già le navi stavano scomparendo all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e di fuochi fatui».
L’aspetto più interessante del romanzo di Calvino è il giudizio, sostanzialmente negativo, che il narratore dà del Buono: «Con questo esile figuro ritto su una gamba sola, nerovestito, cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacer suo senz’essere recriminato in piazza suscitando malignità e ripicche». Il senso di questa presa di posizione non è immediato: perché mai, infatti, gli abitanti di Terralba dovrebbero mal sopportare una persona che sa dire e fare esclusivamente del bene, tanto da convincersi – come si comincia a dire in paese – che «delle due metà è peggio la buona della grama»? A pensarci bene, il motivo è ovvio: siccome non esistono persone a lui simili, il Buono è una presenza ingombrante, in quanto funge da specchio che riflette in continuazione il male che è radicato in ogni essere umano. Ben diversa, infatti, è la condizione del Gramo, il quale è sì l’incarnazione di tutto ciò che spaventa, ma proprio per questo è tenuto a distanza, non penetra nelle coscienze. Delle due metà del visconte, una incute timore per il male che può portare dall’esterno, l’altra terrorizza per il male che disvela all’interno di ogni singolo individuo.
Calvino, in altre parole, ci sta dicendo che nell’animo umano convivono opposte nature, compresa una componente maligna che è bene esplorare a fondo, se vogliamo realmente capire chi siamo. Nessuno sarà mai un intero, non esistono Grami e Buoni, giacché in ogni persona il tendere al bene o al male sarà sempre imperfetto, incompleto, incompiuto. Anche la metà buona di Medardo ne è consapevole, come sottolinea in occasione di un colloquio con la futura moglie: «O Pamela, questo è il bene dell’essere dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro».
Al riguardo, il finale del romanzo è significativo. Anche il narratore, osservatore distaccato delle disavventure dello zio, si ritrova dimezzato («Io invece, in mezzo a tanto fervore d’interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane»), abbandonato dall’amico dottor Trelawney, costretto a vivere in un mondo non più fiabesco – fatto di illusioni (si noti che le ultime due parole del romanzo sono «fuochi fatui») e di responsabilità –, dove tutto è incompleto e niente dà certezze.

Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi 

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