(articolo apparso su Prima Pagina del 19 aprile 2014)
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura;
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.
Il Dialogo di
Federico Ruysch e delle sue mummie possiede una struttura unica nel
contesto delle Operette morali di
Giacomo Leopardi. Esso infatti integra versi e prosa; ha inizio con il Coro di morti nello studio di Federico
Ruysch (componimento in endecasillabi e settenari) e prosegue con il
dialogo vero e proprio tra lo scienziato olandese e le mummie.
Con evidente intenzionalità ironica, Leopardi immagina
che Federico Ruysch (anatomista vissuto tra XVII e XVIII secolo che studiò le
tecniche di conservazione dei cadaveri) venga svegliato nel cuore della notte
dal lugubre canto delle mummie che si trovano nel suo studio.
Per la corretta comprensione del testo – che presenta
un'architettura sintattica piuttosto complessa – una parafrasi è d'obbligo.
In te, morte – unica cosa eterna nel mondo, a cui
necessariamente ritorna tutto ciò che è stato creato –, trova requie la nostra
anima priva di vita, non contenta, ma finalmente al riparo dal dolore provato
in vita. Come una notte buia, [la morte] spegne i pensieri dolorosi nella mente
confusa; l'essere privo di vita sente venir meno lo slancio alla
speranza e al desiderio: così è liberato dall'angoscia e dalla sofferenza ed
esaurisce senza noia il tempo concesso alla lunga, vacua esistenza. Vivemmo: e
come nel bambino resta il ricordo confuso di un incubo notturno [«paurosa
larva» e «sudato sogno» comunicano con una duplice immagine l'idea di una apparizione
spettrale e terrificante che turba il sonno], così permane in noi, che siamo
morti, il ricordo della vita; ma il ricordo è estraneo alla paura. Che cosa
fummo? Che cosa fu quell'esperienza crudele che
chiamammo vita? Oggi [siccome siamo morti] la vita è per noi una cosa
misteriosa, che suscita stupore, allo stesso modo di come la morte appare
misteriosa ai vivi. La nostra anima morta è estranea alla vita così come,
quando vivevamo, eravamo alieni dall'idea della morte; non contenta, ma
rassegnata [è la nostra anima], dal momento che il destino nega tanto ai morti
quanto ai vivi la possibilità di trovare la pace.
Terminato il canto, Ruysch entra
nello studio e, dopo aver vinto la paura («Io non mi pensava perché gli ho
preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero»), si rivolge ai morti per
invitarli a fare silenzio. Uno di essi, immediatamente, lo rassicura: «Poco fa,
sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell'anno grande e
matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose» (si intende il cosiddetto
anno platonico, lungo periodo di tempo al termine del quale i pianeti riassumono
la stessa posizione avuta all'inizio del loro moto); ogni volta che si compie
uno di questi cicli – prosegue il morto –, tutti i defunti, in ogni cimitero,
allo scoccare della mezzanotte intonano il coro che Ruysch ha appena udito.
Dopodiché, hanno facoltà di parlare con i vivi per un quarto d'ora.
Incuriosito, lo scienziato decide a
quel punto di porre alcune domande. E per prima cosa chiede di spiegare che
cosa si prova esattamente «di corpo e di animo nel punto della morte».
La risposta dei defunti, tuttavia, è
un po' deludente: non si ha alcuna percezione – dicono – del momento in cui
finisce la vita, allo stesso modo di come non ci si rende conto dell'attimo in
cui sopraggiunge il sonno. Ne consegue che, in punto di morte, non si avverte
alcun dolore, dal momento che la cessazione della vita coincide con il venir
meno di ogni sensazione corporea. Solo i vivi, pertanto, provano dolore.
Nient'affatto soddisfatto della
spiegazione, Ruysch fa notare che molti filosofi – tanto gli epicurei (coloro
cioè, per dirla con Dante, che «l'anima col corpo morta fanno»), quanto «quelli
che tengono la sentenza comune» (ossia che credono nell'immortalità dell'anima)
– ritengono che la morte, di per sé, sia dolorosissima. Ma i morti dissentono
radicalmente. Essi sostengono che la morte consista proprio nella sparizione di
ogni sensazione: «Come può essere – domanda una delle mummie – che un
sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per
propria qualità un sentimento vivo?». È facile constatare, del resto, che anche
coloro che patiscono a causa di mali estremamente dolorosi, «in sull'appressarsi
della morte [...] si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che
la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore,
sicché questo cessa prima di quella».
Ruysch però insiste. Se la spiegazione dei
defunti può risultare convincente per gli epicurei, come persuadere coloro che
credono che il distacco dell'anima dal corpo in punto di morte non possa
avvenire «senza una grandissima violenza»? La replica del morto che già aveva
preso la parola in precedenza è netta: l'anima, così come nulla si avverte
quando vi entra, abbandona il corpo al termine della vita senza provocare
sofferenza, poiché è immateriale. Quando si muore – prosegue il defunto,
rispondendo a una nuova domanda di Ruysch – non si prova affatto dolore, ma, al
contrario, una sensazione piacevole, una «sorta di languidezza» che deriva
dalla cessazione dei patimenti terreni. In altre parole, il venir meno di ogni
forma di percezione sensoriale è paragonabile al «languore del sonno».
L'argomento sembra finalmente
appagare l'esigente curiosità dello scienziato. Resta solo una questione in
sospeso: colui che sta per cessare di vivere ha forse la chiara percezione del
sopraggiungere della morte? Risponde il defunto: «Finché non fui morto, non mi
persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino
all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita
un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono».
Tutte le altre mummie confermano
queste parole, ma Ruysch non è ancora del tutto soddisfatto. «Ma come vi
accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito dal corpo?», domanda ansioso.
«Dite: come conosceste d'essere morti?». Di colpo, però, lo studio ripiomba nel
silenzio. È scaduto il quarto d'ora; i morti tacciono. Allo scienziato non
resta che tornare a dormire.
Con tutta evidenza, nel finale dell'Operetta
Leopardi lascia cadere nel vuoto l'ultima domanda di Ruysch per un motivo
ben preciso: nessuno può sperare di avere chiara percezione del momento esatto
del trapasso. La vita e la morte resteranno sempre un enigma che non ammette
soluzioni, un mistero rispetto al quale anche la scienza più avanzata –
personificata in Federico Ruysch – deve necessariamente riconoscere i propri
limiti. A questo punto però è lecito chiedersi: è possibile scacciare
l'angoscia della morte? La riflessione di Leopardi indugia a lungo su questa
questione, soffermandosi essenzialmente su una considerazione: se la vita è
sofferenza a prescindere dal dolore fisico che può capitare di dover
sopportare, se l'«esser beato nega ai mortali e nega a' morti il fato», perché
mai si dovrebbe temere la fine dei patimenti terreni? L'istinto che porta ogni
uomo a restare attaccato alla vita con tutte le forze disponibili, che spinge a
coltivare continue illusioni di sopravvivenza anche in condizioni estreme di
malattia e di sofferenza, non è altro che un vile inganno di quella natura che
lo scrittore di Recanati considera crudele matrigna.
Il Coro di morti in questo
senso è piuttosto esplicito. E la chiave di lettura del componimento sta tutta
nell'aggettivo «sicura», che compare in due occasioni (versi 5 e 30) con
significati molto diversi. Nel primo caso si dice che la «nostra ignuda natura»
trova requie nella morte, non contenta («lieta no»), ma al riparo dalle
sofferenze terrene («sicura dall'antico dolor»): il che significa che la morte,
nella prospettiva dei defunti, è una condizione in parte desiderabile dal
momento che pone fine ai tormenti della vita.
Quando invece, nel secondo caso,
Leopardi scrive che «come da morte vivendo rifuggia, così rifugge dalla fiamma
vitale nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura», significativamente inserisce
una pausa dopo quest'ultimo aggettivo, ricorrendo al punto e virgola come segno
di interpunzione. Naturalmente, il fatto che non ripeta alla lettera il passo
iniziale non dipende certo da una mera questione formale: il secondo «sicura»,
infatti, non significa affatto «al riparo», bensì «rassegnata», nel senso che
l'anima dei morti non può che accettare passivamente il suo essere estranea
alla vita. Non si tratta di un'accezione del tutto negativa del termine: basta
convincersi che la rassegnazione risparmi, quantomeno, ben più atroci
delusioni.
Accettare quindi la morte come fine
delle sofferenze e, al pari dei defunti che intonano il Coro, non
riporre troppe aspettative in quella che non è altro che una misera parentesi
terrena: è questa, in definitiva, l'unica condotta possibile per Leopardi.
Piuttosto che angosciarsi con domande che non possono trovare risposta, meglio
– come Federico Ruysch – tornarsene a letto.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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