mercoledì 23 aprile 2014

«Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie»: la morte come enigma che non ammette soluzioni

(articolo apparso su Prima Pagina del 19 aprile 2014)

Coro di morti nello studio di Federico Ruysch

Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura; 
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual de' vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura;
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega a' morti il fato.

Il Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie possiede una struttura unica nel contesto delle Operette morali di Giacomo Leopardi. Esso infatti integra versi e prosa; ha inizio con il Coro di morti nello studio di Federico Ruysch (componimento in endecasillabi e settenari) e prosegue con il dialogo vero e proprio tra lo scienziato olandese e le mummie.
Con evidente intenzionalità ironica, Leopardi immagina che Federico Ruysch (anatomista vissuto tra XVII e XVIII secolo che studiò le tecniche di conservazione dei cadaveri) venga svegliato nel cuore della notte dal lugubre canto delle mummie che si trovano nel suo studio.
Per la corretta comprensione del testo – che presenta un'architettura sintattica piuttosto complessa – una parafrasi è d'obbligo.
In te, morte – unica cosa eterna nel mondo, a cui necessariamente ritorna tutto ciò che è stato creato –, trova requie la nostra anima priva di vita, non contenta, ma finalmente al riparo dal dolore provato in vita. Come una notte buia, [la morte] spegne i pensieri dolorosi nella mente confusa; l'essere privo di vita sente venir meno lo slancio alla speranza e al desiderio: così è liberato dall'angoscia e dalla sofferenza ed esaurisce senza noia il tempo concesso alla lunga, vacua esistenza. Vivemmo: e come nel bambino resta il ricordo confuso di un incubo notturno [«paurosa larva» e «sudato sogno» comunicano con una duplice immagine l'idea di una apparizione spettrale e terrificante che turba il sonno], così permane in noi, che siamo morti, il ricordo della vita; ma il ricordo è estraneo alla paura. Che cosa fummo? Che cosa fu quell'esperienza crudele che chiamammo vita? Oggi [siccome siamo morti] la vita è per noi una cosa misteriosa, che suscita stupore, allo stesso modo di come la morte appare misteriosa ai vivi. La nostra anima morta è estranea alla vita così come, quando vivevamo, eravamo alieni dall'idea della morte; non contenta, ma rassegnata [è la nostra anima], dal momento che il destino nega tanto ai morti quanto ai vivi la possibilità di trovare la pace.
Terminato il canto, Ruysch entra nello studio e, dopo aver vinto la paura («Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che mi risuscitassero»), si rivolge ai morti per invitarli a fare silenzio. Uno di essi, immediatamente, lo rassicura: «Poco fa, sulla mezza notte appunto, si è compiuto per la prima volta quell'anno grande e matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose» (si intende il cosiddetto anno platonico, lungo periodo di tempo al termine del quale i pianeti riassumono la stessa posizione avuta all'inizio del loro moto); ogni volta che si compie uno di questi cicli – prosegue il morto –, tutti i defunti, in ogni cimitero, allo scoccare della mezzanotte intonano il coro che Ruysch ha appena udito. Dopodiché, hanno facoltà di parlare con i vivi per un quarto d'ora.
Incuriosito, lo scienziato decide a quel punto di porre alcune domande. E per prima cosa chiede di spiegare che cosa si prova esattamente «di corpo e di animo nel punto della morte».
La risposta dei defunti, tuttavia, è un po' deludente: non si ha alcuna percezione – dicono – del momento in cui finisce la vita, allo stesso modo di come non ci si rende conto dell'attimo in cui sopraggiunge il sonno. Ne consegue che, in punto di morte, non si avverte alcun dolore, dal momento che la cessazione della vita coincide con il venir meno di ogni sensazione corporea. Solo i vivi, pertanto, provano dolore.
Nient'affatto soddisfatto della spiegazione, Ruysch fa notare che molti filosofi – tanto gli epicurei (coloro cioè, per dirla con Dante, che «l'anima col corpo morta fanno»), quanto «quelli che tengono la sentenza comune» (ossia che credono nell'immortalità dell'anima) – ritengono che la morte, di per sé, sia dolorosissima. Ma i morti dissentono radicalmente. Essi sostengono che la morte consista proprio nella sparizione di ogni sensazione: «Come può essere – domanda una delle mummie – che un sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per propria qualità un sentimento vivo?». È facile constatare, del resto, che anche coloro che patiscono a causa di mali estremamente dolorosi, «in sull'appressarsi della morte [...] si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più sufficiente al dolore, sicché questo cessa prima di quella».
 Ruysch però insiste. Se la spiegazione dei defunti può risultare convincente per gli epicurei, come persuadere coloro che credono che il distacco dell'anima dal corpo in punto di morte non possa avvenire «senza una grandissima violenza»? La replica del morto che già aveva preso la parola in precedenza è netta: l'anima, così come nulla si avverte quando vi entra, abbandona il corpo al termine della vita senza provocare sofferenza, poiché è immateriale. Quando si muore – prosegue il defunto, rispondendo a una nuova domanda di Ruysch – non si prova affatto dolore, ma, al contrario, una sensazione piacevole, una «sorta di languidezza» che deriva dalla cessazione dei patimenti terreni. In altre parole, il venir meno di ogni forma di percezione sensoriale è paragonabile al «languore del sonno».
L'argomento sembra finalmente appagare l'esigente curiosità dello scienziato. Resta solo una questione in sospeso: colui che sta per cessare di vivere ha forse la chiara percezione del sopraggiungere della morte? Risponde il defunto: «Finché non fui morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando muoiono».
Tutte le altre mummie confermano queste parole, ma Ruysch non è ancora del tutto soddisfatto. «Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito dal corpo?», domanda ansioso. «Dite: come conosceste d'essere morti?». Di colpo, però, lo studio ripiomba nel silenzio. È scaduto il quarto d'ora; i morti tacciono. Allo scienziato non resta che tornare a dormire.
Con tutta evidenza, nel finale dell'Operetta Leopardi lascia cadere nel vuoto l'ultima domanda di Ruysch per un motivo ben preciso: nessuno può sperare di avere chiara percezione del momento esatto del trapasso. La vita e la morte resteranno sempre un enigma che non ammette soluzioni, un mistero rispetto al quale anche la scienza più avanzata – personificata in Federico Ruysch – deve necessariamente riconoscere i propri limiti. A questo punto però è lecito chiedersi: è possibile scacciare l'angoscia della morte? La riflessione di Leopardi indugia a lungo su questa questione, soffermandosi essenzialmente su una considerazione: se la vita è sofferenza a prescindere dal dolore fisico che può capitare di dover sopportare, se l'«esser beato nega ai mortali e nega a' morti il fato», perché mai si dovrebbe temere la fine dei patimenti terreni? L'istinto che porta ogni uomo a restare attaccato alla vita con tutte le forze disponibili, che spinge a coltivare continue illusioni di sopravvivenza anche in condizioni estreme di malattia e di sofferenza, non è altro che un vile inganno di quella natura che lo scrittore di Recanati considera crudele matrigna.
Il Coro di morti in questo senso è piuttosto esplicito. E la chiave di lettura del componimento sta tutta nell'aggettivo «sicura», che compare in due occasioni (versi 5 e 30) con significati molto diversi. Nel primo caso si dice che la «nostra ignuda natura» trova requie nella morte, non contenta («lieta no»), ma al riparo dalle sofferenze terrene («sicura dall'antico dolor»): il che significa che la morte, nella prospettiva dei defunti, è una condizione in parte desiderabile dal momento che pone fine ai tormenti della vita.
Quando invece, nel secondo caso, Leopardi scrive che «come da morte vivendo rifuggia, così rifugge dalla fiamma vitale nostra ignuda natura; lieta no, ma sicura», significativamente inserisce una pausa dopo quest'ultimo aggettivo, ricorrendo al punto e virgola come segno di interpunzione. Naturalmente, il fatto che non ripeta alla lettera il passo iniziale non dipende certo da una mera questione formale: il secondo «sicura», infatti, non significa affatto «al riparo», bensì «rassegnata», nel senso che l'anima dei morti non può che accettare passivamente il suo essere estranea alla vita. Non si tratta di un'accezione del tutto negativa del termine: basta convincersi che la rassegnazione risparmi, quantomeno, ben più atroci delusioni.
Accettare quindi la morte come fine delle sofferenze e, al pari dei defunti che intonano il Coro, non riporre troppe aspettative in quella che non è altro che una misera parentesi terrena: è questa, in definitiva, l'unica condotta possibile per Leopardi. Piuttosto che angosciarsi con domande che non possono trovare risposta, meglio – come Federico Ruysch – tornarsene a letto.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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