(articolo apparso su Prima Pagina del 5 aprile 2014)
Pubblicato nel 1865 – in piena età
vittoriana –, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie è il
capolavoro del reverendo e matematico inglese Charles Lutwidge Dodgson, meglio
noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll. L'origine del libro è rievocata in una
poesia introduttiva che precede il primo capitolo. Il 4 luglio 1862 Carroll
fece una gita in barca in compagnia del reverendo Robinson Duckworth (i due
erano colleghi, essendo entrambi docenti ad Oxford) e delle tre giovani figlie
del grecista Henry George Liddell, dean del Christ Church College.
Secondo la testimonianza dell'autore, la storia di Alice venne inventata in
quell'occasione, per accogliere la richiesta delle bambine, «tre visi intenti,
assetati di notizie del paese delle fate, che non avrebbero mai accettato un
"no", e dalle cui labbra il "Ti prego, raccontaci una storia"
aveva tutta la rigida ineluttabilità del Fato!». Fu poi Alice Liddell, per età
la seconda delle tre figlie di Henry George, ad insistere perché la storia
fosse messa per iscritto: a lei si deve pertanto la stesura del romanzo, che
dapprima (pensato come regalo proprio per la bambina che, evidentemente, ispirò
Carroll per la definizione dei tratti della protagonista del racconto) fu
trascritto in soli quattro capitoli, e successivamente fu ampliato e pubblicato
con le celebri illustrazioni di John Tenniel.
La trama è estremamente articolata,
al punto di rendere pressoché impossibile l'individuazione di una lineare
sequenza narrativa. Il racconto inizia con l'immediata introduzione della
figura di Alice, la quale, seduta sull'erba accanto alla sorella – che è
intenta a leggere un libro –, si annoia a morte e comincia «a non poterne più».
Mentre cerca un modo per passare il tempo, sopraggiunge d'un tratto un coniglio
bianco: l'animale indossa un panciotto e controlla ansioso un orologio estratto
dal taschino. «Povero me! Povero me! Sto facendo tardi!», va dicendo tra sé,
affrettando il passo, prima di sparire in una buca posta sotto una siepe.
Incredula, Alice si lancia
all'inseguimento del coniglio. Ma, una volta entrata nella sua tana, sprofonda
all'improvviso, precipitando in quello che le sembra un pozzo senza fondo.
Quando finalmente atterra, senza essersi fatta alcun male, si ritrova in un
vestibolo con numerose porte, tutte chiuse a chiave. Quindi si imbatte in un
tavolino a tre gambe, sul quale trova una minuscola chiave d'oro, che apre una
porticina nascosta dietro una tenda, dalla quale si accede a un giardino
meraviglioso. Alice però è troppo grande per passare da quella piccola
apertura, e si lascia prendere dallo sconforto, finché non scorge, sempre sul
tavolino, una bottiglietta con un cartellino con su scritto «Bevimi». Dopo
averne bevuto il contenuto, viene immediatamente rimpicciolita; ma ha
dimenticato la chiave sul tavolino, e le sue nuove ridotte dimensioni non le
consentono più di raggiungerla. Sconsolata, trova a questo punto un pasticcino
«con la parola MANGIAMI formata chiaramente da tante uvette», il cui effetto è
quello di ingrandirla nuovamente. Ma, ancora una volta, si ripete la situazione
iniziale: ora Alice può raggiungere la chiave sul tavolino, ma è troppo grande
per passare dalla porticina. E scoppia in lacrime.
Dopo un po' rientra in scena il
coniglio, con un paio di guanti bianchi in una mano e un grosso ventaglio
nell'altra. Questi, vedendosi venire incontro una bambina che cerca di attirare
la sua attenzione, per lo spavento lascia cadere tutto in terra e corre via.
Raccolti gli oggetti del coniglio, Alice presto realizza che il ventaglio ha la
proprietà di rimpicciolirla; ma, mentre si dirige verso la porticina, scivola e
si ritrova immersa fino al collo nel «laghetto delle lacrime» versate poco
prima. Nuotando, si avvicina quindi a un topo e a «una folla di uccelli e di
altri animali», con i quali raggiunge la riva. Per asciugarsi, i membri
dell'insolita comitiva suggeriscono di dare inizio a una «Corsa Elettorale» (di
fatto un andirivieni senza senso in cui ognuno parte e si ferma quando vuole);
dopodiché Alice si allontana, raggiungendo la casetta del coniglio bianco (il
vestibolo, nel frattempo, è misteriosamente scomparso).
Inizia a questo punto il vero e
proprio viaggio nel Paese delle Meraviglie. Alice viene catapultata in un mondo
dominato dalle assurdità, dove viene meno il nesso causa-effetto e tutti gli
animali sono in grado di parlare. Cambiando continuamente le proprie dimensioni
(a seconda di quello che mangia), la giovane visitatrice si ritrova dapprima
intrappolata nella casa del coniglio (dal momento che è troppo grande per
uscirne); poi si imbatte in figure fantastiche quali il Bruco, intento a fumare
il narghilè da sopra un fungo, la Duchessa (che riceve da due Valletti – un
pesce e una rana – un invito per una partita di croquet con la Regina), il
Gatto del Cheshire (capace di svanire nel nulla), la Lepre Marzolina, il Ghiro
e il celebre Cappellaio. Questi ultimi sono seduti in un angolo di un grande
tavolo, apparecchiato per molte persone. Dopo essersi seduta a capotavola,
Alice apprende che i tre commensali sono soliti prendere il tè cambiando
continuamente posto, spostandosi di tazza in tazza. Il motivo, naturalmente, è
bizzarro: a causa di un rimprovero della Regina di Cuori (che durante
un'esibizione canora in occasione di un concerto l'aveva accusato di
assassinare il tempo), il Cappellaio possiede un orologio che segna solo i
giorni, ma sempre la stessa ora (le sei, l'ora del tè), sicché manca «il tempo
di lavare la roba negli intervalli».
Abbandonata questa stramba comitiva,
Alice giunge infine nel bel giardino oggetto del suo iniziale desiderio. Qui,
in un mondo abitato da carte da gioco, partecipa al croquet della Regina, che
si rivela essere un immane guazzabuglio, anche per l'irascibilità della
sovrana, che ordina di mozzare il capo a chiunque le si pari davanti. Dopo
essersi imbattuta in nuove strane creature (il Grifone e la Finta Tartaruga),
Alice assiste al processo istruito contro il Fante di Cuori, accusato di avere
rubato alcune paste da una tavola imbandita dalla Regina. Per decretare la
colpevolezza dell'imputato risulta decisiva una lettera senza firma, su cui è trascritta
una poesia totalmente priva di senso. «Prima la sentenza e poi il verdetto»,
prorompe decisa la Regina, ma Alice, che nel frattempo ha cominciato a crescere
a dismisura, si oppone. Ormai, forte delle sue grandi dimensioni, non ha più
alcun timore di dire ciò che pensa: «Non siete che un mazzo di carte!», afferma
con tono risoluto, e immediatamente dopo si sveglia tra le braccia della
sorella. Frastornata per l'incredibile sogno, rientra a casa per il tè.
Le ultime pagine del libro contengono
una possibile chiave di lettura del racconto. Alice, dopo essersi ridestata, ha
appena finito di esporre il suo sogno alla sorella; ed è subito corsa a casa.
Scrive a questo punto Carroll: «Ma sua sorella rimase ferma a sedere proprio
dove Alice l'aveva lasciata, con la testa appoggiata sulla mano, a guardare il
sole al tramonto e a pensare alla piccola Alice e a tutte le sue meravigliose
Avventure [...]. Così se ne restò lì a occhi chiusi, quasi credendosi nel Paese
delle Meraviglie, pur sapendo che le sarebbe bastato riaprirli e tutto sarebbe
ridiventato la prosaica realtà». Quest'ultimo aggettivo, a ben vedere, è carico
di significati. Se da un lato, infatti, Carroll considera l'infanzia (incarnata
da Alice) l'affascinante età dell'immaginazione e del mistero, dall'altro egli
è perfettamente consapevole che sarebbe assurdo (così come assurdi sono i personaggi
della sua storia) augurarsi di vivere in un mondo privo di senso. Nel reverendo
Dodgson convivono perciò due nature: quella, onirica, di Alice e quella,
razionale, della sorella. Questa ultima è tutt'altro che un personaggio
secondario, e rappresenta per certi versi una trasfigurazione letteraria dello
stesso Carroll, il quale si lascia solo parzialmente sedurre dall'incanto delle
avventure fiabesche, rassicurato dall'idea che sia sufficiente riaprire gli
occhi per uscire dal regno dei sogni.
Anche Alice, del resto, non rinuncia
mai alla propria rigorosa razionalità, che si esprime soprattutto attraverso il
pignolo rispetto di tutte le formalità tipiche della tradizionale educazione
vittoriana. E il motivo è che un mondo senza tempo, dove non vige il principio
di causalità e sono stravolte le più elementari leggi della fisica, non è un
luogo poi così ospitale. La ribellione finale di Alice è in tal senso un chiaro
indizio: pur essendo affascinante sprofondare, una tantum, in un fantastico
regno di fantasia, alla lunga è sempre consigliabile tenere i piedi ben saldi a
terra. Solo in questo modo è possibile che la «prosaica realtà» si trasformi in
un Paese delle Meraviglie. Un Paese che – forse al di là delle intenzioni di
Carroll – somiglia molto più a una terra promessa per adulti che non a un
paradiso da fiaba per bambini.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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