sabato 23 agosto 2014

L’inguaribile attitudine all’autoanalisi: la coscienza (o l’incoscienza?) di Zeno

(articolo apparso su Prima Pagina del 9 agosto 2014)

Scritto tra il 1919 e il 1922, il terzo romanzo di Italo Svevo – La coscienza di Zeno – fu pubblicato nel 1923 dall’editore Cappelli di Bologna. Appena uscita, l’opera fu pressoché completamente trascurata dalla critica italiana, con la significativa eccezione di Eugenio Montale, che nel 1925 scrisse un articolo intitolato Omaggio a Italo Svevo nel quale riconosceva lo straordinario talento narrativo dello scrittore triestino. Più ancora del poeta ligure fu però James Joyce a comprendere il valore del libro e a segnalarlo come capolavoro nel panorama letterario europeo. L’entusiastica recensione dell’autore dell’Ulisse fece infatti conoscere il romanzo sveviano anche fuori dall’Italia, favorendo la pubblicazione, in rapida successione, delle traduzioni in francese, tedesco ed inglese.
La coscienza di Zeno è la storia, autobiografica, di un personaggio che si presenta, inizialmente, come il classico inetto incapace di gestire le più comuni difficoltà. Sollecitato da un certo Dottor S. – psicanalista che l’ha in cura –, Zeno affida ad una sorta di diario le memorie della propria vita, raccontando in maniera frammentaria (senza seguire un lineare ordine cronologico) gli avvenimenti del passato che ritiene più significativi. La scrittura è alla base della terapia che deve seguire, dal momento che, per curare il suo malessere esistenziale, Zeno è indotto dal medico a fissare sulla pagina ricordi e riflessioni. L’impegno viene però mantenuto solo in parte: dopo aver scritto alcuni capitoli, infatti, il paziente sospende la cura, convinto che essa non sia più necessaria; e il Dottor S., per ripicca, decide di dare alle stampe il frutto del suo lavoro.
Ogni capitolo si sofferma su un preciso nucleo tematico. Dopo una Prefazione (firmata dal Dottor S.) e un Preambolo, Zeno dà inizio alla sua analisi soffermandosi sul vizio del fumo e sui vani ripetuti tentativi di abbandonare questa nociva abitudine. Egli ricorda allora che da ragazzo rubava dalle tasche del panciotto del padre «i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumava una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto»; oppure che si impossessava di nascosto dei sigari «fumati a mezzo» che il genitore lasciava in giro per casa, nella convinzione che questo «fosse il suo modo di gettarli via». Attraverso la scrittura, il protagonista scopre così che il fumo è associato a un senso di ribellione: fumare «l’ultima sigaretta» – come più volte si impone di fare, rimarcando quello che nelle sue intenzioni dovrebbe essere un solenne atto conclusivo – e poi decidere di riprendere il vizio equivale infatti a protestare la propria libertà rispetto ai divieti e alle convenzioni.
Il capitolo successivo affronta il tema del controverso rapporto di Zeno con il padre e, in particolare, dei sensi di colpa che affliggono il protagonista dopo la morte del genitore. Zeno è infatti ossessionato da un episodio per lui sconcertante: sul letto di morte, pochi istanti prima di spirare, il padre gli aveva rifilato un poderoso schiaffo, ed egli non sa se attribuire il gesto all’incoscienza dovuta all’agonia o piuttosto ad una espressa intenzione di rimproverare il figlio per via della sua indolenza.
Segue un lungo capitolo intitolato La storia del mio matrimonio, nel quale Zeno racconta come ha conosciuto la moglie. Tutto ha inizio quando il protagonista incontra Giovanni Malfenti, uomo d’affari di successo, incarnazione del tipico borghese sempre sicuro di sé. Questi ha quattro figlie (Ada, Augusta, Alberta e Anna), delle quali la più bella è la prima. Zeno la corteggia – piuttosto goffamente –, ma viene respinto poiché la ragazza è attratta da Guido Speier, giovane elegante e raffinato. Ripiega allora su Alberta, ma ancora una volta invano. Infine Zeno fa la sua proposta di matrimonio ad Augusta (la più brutta), e questa volta ha successo. La scelta si rivela involontariamente azzeccata. Augusta è infatti proprio la donna che fa al caso di Zeno: amorevole e guidata da un saldo sistema di certezze, incarna l’essenza di quella “sanità” che il protagonista – per sconfiggere la sua nevrosi – va ricercando nella psicanalisi.
Il quarto capitolo è dedicato alla rievocazione della relazione adulterina con Carla, una bella ragazza di umili origini dalla quale Zeno si sente fortemente attratto. A lungo andare, tuttavia, la doppia condizione di marito e amante – a causa del forte senso di colpa – risulta insostenibile, anche se è evidente che Carla per Zeno rappresenta – un po’ come le sigarette – un’occasione per placare provvisoriamente la sete di libertà nei confronti delle costrizioni imposte dalla società borghese. Ma un conto è il gesto ribelle, altra cosa è sottrarsi alle responsabilità che derivano dell’impegno matrimoniale: questo Zeno non può accettarlo (e nemmeno lo desidera, dal momento che è attratto dalla “normalità” tanto quanto lo è dalla trasgressione), col risultato che la scelta di interrompere la relazione con Carla risulta pressoché obbligata.
Il romanzo prosegue poi con la descrizione delle varie tappe dell’avventura commerciale che vede coinvolti Zeno e Guido Speier, nel frattempo divenuto marito di Ada. Inizialmente è quest’ultimo a seguire gli investimenti, apparentemente con grande perizia. Tuttavia, a dispetto della sicurezza che ostenta compiaciuto, Guido si dimostra un amministratore poco accorto e porta l’associazione a un passo dal fallimento. Oppresso dal rischio di perdere tutto, egli gioca così la carta del suicidio simulato; ma, avendo involontariamente ingerito una dose eccessiva di veleno, muore. A questo punto tocca a Zeno gestire l’associazione, e il suo intervento si rivela inaspettatamente decisivo. Il socio inetto, infatti, porta a termine alcune brillanti operazioni, evita il fallimento e si guadagna il rispetto dell’intera famiglia. Il suo è, a tutti gli effetti, un autentico riscatto, una rivincita nei confronti di colui che era stato il suo rivale in amore e negli affari (rivincita peraltro completata dall’inconsapevole abbaglio per il quale Zeno sbaglia funerale e non si presenta in tempo per l’estremo saluto al cognato).
Il romanzo si conclude a questo punto con alcune riflessioni in forma diaristica che, speculari alla Prefazione del Dottor S., sanciscono di fatto l’avvenuta guarigione del paziente Zeno. Questi afferma infatti di non aver più alcun bisogno della psicanalisi, e che anzi la cura cui si è sottoposto non ha fatto altro che aggravare il suo stato di malessere. «Da lungo tempo – scrive – io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e che era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere». Non è pertanto Zeno il vero malato, bensì tutti coloro che – guidati esclusivamente dalla brama del profitto e incuranti di tutto ciò che non contribuisce ad accrescere il successo e la gloria personale – si professano sani e sicuri di sé. Zeno, in sostanza, è sano perché ha imparato ad accettarsi e, soprattutto, a conoscersi a fondo. La sua nevrosi non è altro che la ferrea determinazione a comprendere gli oscuri moti della realtà interiore. Piuttosto è l’umanità ad essere in pericolo, essa sì gravemente malata e destinata a sprofondare in un baratro in cui dominano violenza e prevaricazione. Al riguardo, le parole conclusive di Zeno (Svevo?) lasciano poco spazio alla speranza: «Forse attraverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie».
In cosa consiste dunque la presunta malattia di Zeno? L’esasperata predisposizione all’introspezione e alla spietata analisi di sé è sinonimo di nevrosi o di sanità mentale? Per Svevo non ci sono dubbi: i veri malati sono coloro che si preoccupano solo degli aspetti superficiali dell’esistenza e vivono assecondando passivamente i valori della società borghese (ovvero essenzialmente l’esibizione della forza, di una competitività che, in ogni campo, costringe l’uomo moderno a sottostare ai dettami di una radicale – e tirannica – omologazione). Zeno, in altre parole, si riscatta nel momento in cui comprende che le sue paranoie sono in realtà un privilegio, giacché attraverso di esse egli può osservare l’autentica propria natura, studiare la vita per quello che realmente è, guardare oltre la maschera che – lui per primo – è consapevole di dover indossare in pubblico. Il risultato della sua analisi è un libro rivoluzionario: un romanzo che assegna alla scrittura il compito precipuo di facilitare la comprensione dell’animo umano e che eleva la letteratura a strumento privilegiato di conoscenza. È questa, del resto, la coscienza cui allude il titolo: l’esigenza di mettersi a nudo, di essere sinceri almeno nel rapporto con se stessi. Si tratta, a ben vedere, di una curiosità potenzialmente devastante, dal momento che mette in contatto l’uomo con la sua follia, con la sua parte più autentica, mostruosa e difficilmente controllabile. Zeno ne è consapevole, ma non ha alternative e non può esimersi dall’esplorare il lato oscuro della propria psiche. La sua è un’ossessione, forse salutare, di certo un poco affine all’incoscienza.

Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero

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