(articolo apparso su Prima Pagina del 23 agosto 2014)
Per il testo dell'ode consultare:
http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/07_12_Manzoni_Alessandro.html
http://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/07_12_Manzoni_Alessandro.html
Il Cinque Maggio
è la classica poesia che gli insegnanti fanno imparare a memoria. Tutti la conoscono
e sono in grado di recitarne brevi passi, specialmente le due strofe iniziali.
Ma è facile presumere che pochi, terminati gli studi, siano in grado di
dimostrare di averla ben compresa, o apprezzata. E la ragione è piuttosto
semplice: la nostra scuola, per lo più, istruisce ma non appassiona, trasmette
nozioni ma non stimola la curiosità. La meta dei diciott'anni è vissuta come un
traguardo da tagliare per affrancarsi dall'obbligo di tenere occupata la mente
in cose inutili, che non hanno nessuna valenza pratica. In sostanza, ci si
specializza in un determinato settore (universitario o professionale), e tutto
il resto viene inesorabilmente accantonato. È sufficiente – provare per credere
– domandare a un maturando cosa intenda fare dopo l'esame, per sentirsi
rispondere, il più delle volte: «Appena finisco, faccio un falò con i libri!».
Inutile dire che, in questo squallido scenario, le
materie umanistiche sono le più penalizzate. Le lettere, infatti, non
"servono": sono noiose, intrise di pessimismo, adatte agli studiosi pedanti.
Roba da vecchi, insomma, che poteva andar bene, tutt'al più, quando la gente
aveva più tempo da perdere.
Tornando all'ode del Manzoni, l'impressione è che per Il Cinque Maggio le considerazioni sopra
esposte acquistino un valore, per così dire, emblematico. Tutti – si diceva –
conoscono il componimento (nel senso che sanno cos'è, sono al corrente che
esiste), ma pochi saprebbero illustrare, con un minimo di approfondimento, di
cosa parla. Ebbene: l'auspicio di chi scrive è che il lettore, giunto a questo
punto, senta il bisogno di andare oltre e provi un briciolo di curiosità
dinanzi a un capolavoro assoluto della letteratura italiana. Tempo perso? Chissà...
Ad ogni modo, è bene fare subito una precisazione di
carattere metodologico: per questioni di spazio, in questa sede non è stato
possibile riprodurre l'intero testo dell'ode. Si consiglia pertanto di
consultare i versi manzoniani e, solo a quel punto, di procedere con la
lettura. Di fatto, qui di seguito verrà proposta una parafrasi unita ad un
breve commento.
Come tutti sanno, Il
Cinque Maggio fu scritto nel 1821 dopo che Manzoni ebbe ricevuto la notizia
della morte di Napoleone Bonaparte. Non si tratta, però, di un'ode celebrativa:
la scomparsa dell'imperatore è infatti un pretesto per affrontare il grande
tema del rapporto dell'uomo con la morte, intesa quale unica occasione per
avvicinarsi – attraverso Dio – ad una seppur parziale comprensione del senso
dell'esistenza.
Procediamo dunque con la parafrasi, per la quale si terrà
conto soprattutto dell'ampio capitolo dedicato al Manzoni dalla Storia della Letteratura Italiana di
Giulio Ferroni (i numeri tra parentesi indicano la strofa):
(1) Egli [Napoleone] è morto. Così come, esalato l'ultimo
respiro, il suo corpo esanime e senza più ricordi è rimasto immobile, privo di
un così grande spirito, allo stesso modo la terra si ferma, colpita, stordita
alla notizia di questa morte, (2) e resta in silenzio, pensando agli istanti
conclusivi della vita dell'uomo reso grande dal destino; e non sa quando
un'impronta di essere umano equiparabile a quella di Napoleone verrà a
calpestare il suo suolo insanguinato [a causa delle ripetute guerre]. (3) La
mia creatività poetica lo vide [Napoleone] trionfante sul trono imperiale, e
rimase in silenzio; quando, nel turbinio degli eventi, egli fu sconfitto [a Lipsia],
si risollevò [durante i Cento giorni, dopo la fuga dall'isola d'Elba] e fu infine
definitivamente vinto, [la mia creatività] non si è unita al coro delle
molteplici voci [levatesi per osannarlo o vituperarlo]: (4) conservatasi
estranea a ogni servilismo e per nulla disposta ad associarsi alle vili
ingiurie, [la mia creatività] si innalza ora, impietosita, dinanzi
all'improvviso spegnimento di una luce tanto intensa [quella che promanava
dalla figura di Napoleone], e dedica alla sua tomba un canto di cui forse si
conserverà la memoria.
(5) Dall'Italia all'Egitto, dalla Spagna alla Germania,
l'azione di quell'uomo intrepido era una conseguenza dei suoi pensieri, così
come il tuono segue il lampo; essa [l'azione] scoppiò dalla punta estrema
dell'Italia sino al fiume Don [in Russia], dal Mediterraneo all'Atlantico. (6)
Fu vera gloria [quella di Napoleone]? Il difficile giudizio spetta ai posteri:
noi non possiamo far altro che chinar la fronte al cospetto di Dio, che volle
imprimere in lui [Napoleone] un'impronta più forte del suo spirito creatore.
(7) La gioia tempestosa e trepidante che deriva da un grandioso progetto;
l'insofferenza frutto di un temperamento poco incline a obbedire, che da subito
pensa al potere e lo ottiene, conquistando un premio al quale era cosa folle aspirare;
(8) tutto questo egli [Napoleone] provò; e provò anche la gloria resa esaltante
dal pericolo, la fuga e la vittoria, il potere regale e l'umiliante esilio: due
volte nella polvere della sconfitta, due volte sull'altare della gloria [il
riferimento è alle sconfitte di Lipsia e Waterloo e ai fasti dell'Impero e dei
Cento giorni]. (9) Egli pronunciò il suo nome: due secoli tra loro contrapposti
[il XVIII e il XIX] si volsero a lui sottomessi, come se da lui stessero
attendendo il proprio destino; egli fece silenzio e, come giudice supremo, si sedette
in mezzo a loro. (10) E poi sparì, e terminò i suoi giorni in totale inattività
su un'isola così piccola [come Sant'Elena], divenuto oggetto di enorme invidia
e di profonda pietà, di odio inestinguibile e di indomabile amore. (11) Come
l'onda vorticosa si riversa sul capo del naufrago, quell'onda sulla quale lo
sguardo del misero poco prima scorreva alto e proteso nel vano tentativo di
avvistare approdi lontani, (12) così, con pari violenza, l'insieme dei ricordi
si riversò sulla sua anima [di Napoleone]! Oh, quante volte cominciò a
raccontare le proprie imprese ai posteri, e la sua mano stanca cadde sulle
pagine interminabili [a scriversi]! (13) Oh quante volte, immerso nel
silenzioso tramontare di un giorno trascorso nell'inerzia, abbassati gli occhi
lampeggianti, con le braccia incrociate al petto, restò immobile, e l'assalì il
ricordo dei giorni passati! (14) E ripensò alle tende da campo, alle trincee
battute dall'artiglieria, al fulmineo avanzamento dei plotoni, alle cariche
della cavalleria, ai propri ordini concitati e alla loro rapida esecuzione [da
parte delle truppe].
(15) Ahi! forse di fronte a ricordi tanto struggenti, il
suo animo spossato si abbatté, privo di speranza; ma dal cielo venne in suo
soccorso una mano forte [la mano di Dio], che, pietosa, lo sollevò in
un'atmosfera più distaccata e serena; (16) e lo indirizzò, attraverso i fioriti
sentieri della speranza, ai valori eterni, al premio che va oltre i desideri
dell'uomo, dove della futile gloria terrena non restano che silenzio e tenebre.
(17) O bella, immortale, benefica fede abituata ai trionfi! Aggiungi anche
questo all'elenco dei tuoi successi, rallegrati, giacché nessun uomo più
potente e superbo di Napoleone si è mai inchinato dinanzi alla croce infamante
del monte Golgota [ovvero la croce Cristo, il quale subì la pena più infamante
prevista dai romani]. (18) Tu [o fede] disperdi ogni parola di rancore dalle
spoglie mortali di Napoleone: quel Dio che abbatte e soccorre, che procura
affanni e poi consola, si sedette accanto a lui [a Napoleone] sul solitario
letto di morte.
Con tutta evidenza, siamo ben lontani da ogni intento
celebrativo. Come anticipato, Napoleone è più che altro un pretesto: non è,
come taluni credono, il fulcro dell'ode. Quando Manzoni lesse della sua morte
(e, elemento decisivo, della conversione pochi istanti prima di spirare) fu
mosso a compassione per un uomo che aveva avuto tutto ma che si era spento in
completa, misera solitudine.
I versi del poeta sono impietosi: le gesta terrene sono
effimere, distolgono l'uomo dalla costante, imprescindibile, riflessione sul
significato ultimo dell'esistenza. Solo umiliandosi Napoleone si riscatta, dopo
avere seminato lutti e distruzioni per mera ambizione personale. Solo comprendendo
che, di fronte a Dio, non esistono imperatori, che la morte appiana ogni
differenza poiché pone tutti al cospetto delle proprie angosce e, infine, che
la fede è l'unico appiglio che consenta di non sprofondare in un baratro dove
nulla ha senso, l'uomo può ambire alla serenità dell'animo. Per una completa
conversione, del resto, basta un brevissimo istante di sincero pentimento. «Dio
perdona tante cose, per un'opera di misericordia», dice infatti, ne I promessi sposi, Lucia all'innominato,
indicandogli indirettamente la via della redenzione. Vale lo stesso per
Napoleone, il quale, nel momento in cui accetta il proprio destino di sconfitta
e si umilia, come semplice uomo, invocando l'aiuto di Dio, compie un atto di
misericordia verso se stesso. Così facendo ottiene il perdono e, con esso, una
morte serena, finalmente in pace.
Appuntamento ogni sabato su Prima Pagina con la rubrica All'apparir del vero
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