(articolo apparso su Prima Pagina del 12 aprile 2015)
Apparso nel 1923, I
vivi e i morti di Giuseppe Antonio Borgese è certamente un romanzo poco
conosciuto, di non facile lettura e piuttosto spigoloso in quanto a tematiche
affrontate. Alla base della vicenda sta infatti la volontà di regressione del
protagonista, Eliseo Gaddi, attratto dalla vita di campagna dopo anni trascorsi
in città, determinato a scoprire se stesso per placare un martellante senso di
inadeguatezza e di perenne frustrazione esistenziale. In sostanza, I vivi e i morti è la storia di una
ricerca tutta interiore, di un percorso introspettivo che individua nella
solitudine una provvidenziale via d’uscita per sfuggire alle pastoie del corpo.
Il romanzo si apre con Eliseo che tenta di scrivere le
proprie memorie dopo essere tornato a Miriano, nella casa della madre. Ha
deciso infatti di lasciare Milano, lui professore e giornalista, per ritirarsi
definitivamente in campagna, «ove non è nulla che non ricordi la perpetuità del
cielo e il breve tempo d’ogni cosa terrestre». Eliseo è insoddisfatto di se
stesso: tenta di scrivere, ma subito realizza che la sua vita precedente –
ancorché egli non abbia ancora quarant’anni – non è altro che un lungo «passato
senza né filo né segno». Posa la penna. Non può scrivere perché sente di avere
condotto un’esistenza vacua, e «ora è tempo finalmente di vivere, non di
scrivere».
A Miriano Eliseo intende occuparsi di agricoltura,
aiutando la madre e il fratello Michele nella gestione delle proprietà di
famiglia. Con quest’ultimo ha però una violenta discussione: si parla della
divisione dell’eredità (a Eliseo spetterebbe il podere della Cascinetta, ma il
fratello dubita che egli sia in grado di farlo fruttare) e della prospettiva di
un’imminente collaborazione. Michele – che giudica Eliseo una persona indolente
e non tollera che questi si sia immischiato nei suoi affari – è furente,
«gonfio d’ira quasi da goderne»: sotto la grandine, torna a casa turbato da
mille pensieri. Nella notte si sente male, cade in preda al delirio e infine
spira poco dopo l’alba.
Ricevuta la tragica notizia, Eliseo prova un forte senso
di angoscia per non aver avuto occasione di riappacificarsi con Michele. Col
tempo, comprende che la presenza del fratello si è fatta paradossalmente più
ingombrante dopo la morte, una sorta di ossessione – acuita dal senso di colpa
– da cui non sarà facile liberarsi. Eliseo si ritrova quindi ancora più solo
con se stesso: vorrebbe essere di sostegno alla madre anziana, già vedova, ma
realizza di essere piuttosto lui ad avere bisogno di lei. Tenta di distrarsi
supervisionando il lavoro nei campi, si lascia sedurre dal fascino delle speculazioni
(che tuttavia lo portano a fare investimenti poco proficui) e infine cerca un
po’ di pace e di conforto nello studio di alcuni autori classici, passando da
Leopardi a Manzoni.
Trascorrono alcuni mesi e Fiora, la madre, è sempre più
in allarme a causa delle stravaganze del figlio, incapace di vincere il rimorso
(come provano le sue assidue – ed eccessive – visite al cimitero, sulla tomba
di Michele). Finalmente, giunta l’estate, Eliseo si lascia convincere ad
abbandonare per qualche tempo la campagna per concedersi una vacanza, dapprima
a Milano, poi a Venezia, dove ha modo di riannodare vecchi rapporti di amicizia
con la ricca famiglia Leri. Qui si invaghisce, ricambiato, della bella Sofronia
Leri, una ragazza affascinante e colta, amante della poesia. Ma persino
nell’amore Eliseo palesa tutta la propria inettitudine: incapace di
abbandonarsi al sentimento e di immaginare per se stesso (e, di riflesso, per
Sofronia) una vita felice, finisce per rimpiangere la passata solitudine,
giacché, inesorabilmente, si sente «tratto in opposte direzioni da un impeto di
amore e da un inesplicabile sentimento di pietà».
La sola certezza che gli resti è la madre, presso la
quale – dopo essersi separato da Sofronia, andata nel frattempo in sposa a un
ricco e insignificante borghese – fa ritorno senza più alcuna valida
aspettativa per il futuro. Di fatto, Eliseo conduce un’esistenza impalpabile, in
apparenza priva di significato, sempre più afflitta da turbamenti psichici e,
in definitiva, da «una inestinguibile sete dell’Eterno». La sua vita è come
corrosa, giorno dopo giorno, dalla morte, fattasi ossessione anche in
conseguenza di un forte senso di estraneità rispetto a un mondo che sta
cambiando (da poco è scoppiata la Prima guerra mondiale, ed Eliseo – che
afferma di aver sempre preferito «l’essere puri all’essere forti» – è del tutto
consapevole della propria inadeguatezza) e sembra non promettere nulla di
buono.
Sempre più turbato, Eliseo incomincia ad avere visioni, e
si convince di essere in contatto con lo spirito di un vecchio prozio (Alvise),
morto assassinato anni addietro. Durante una seduta spiritica subisce però un
forte trauma psichico, e finisce per ammalarsi. Solo le cure della madre –
incarnazione di quello che potrebbe definirsi un eroico pragmatismo – lo
salvano dalla morte, anche se egli potrà dirsi guarito solo dopo la dipartita
di Fiora. Rimasto solo, senza genitori, con la sorella e gli amici lontani, il
fratello defunto, Eliseo volge continuamente il pensiero a chi ha condiviso le
sue sofferenze terrene (ai vivi e ai morti che danno il titolo al romanzo), e
nella comunione di spirito con le persone care trova finalmente la tanto
agognata pace interiore. «Egli visse ancora tre anni»: così si conclude,
laconicamente, la narrazione, come a dire che, dopo aver scoperto Dio
attraverso il dolore, l’attesa della fine non è altro che una breve parentesi
temporale che separa l’uomo dall’eterno.
Eliseo, quindi, alla fine guarisce. Tutta la sua
inettitudine, la sua ostinata introspezione alla ricerca di un senso delle
cose, trovano uno sbocco nella contemplazione della morte quale unico rimedio
al male di vivere. Tutto nella morte si chiarisce: il perché della sofferenza,
il mistero dei legami affettivi, il trauma legato alla scomparsa delle persone
care (le quali, seppur dall’aldilà, sono una presenza ingombrante – ma allo
stesso tempo decisiva – per i vivi). Dialogando con la madre (che è molto
religiosa), Eliseo ha uno sfogo che chiarisce il suo stato d’animo: «Secondo
te, questa vita è un passaggio, no? Lo ammetti! Secondo te quella che conta è
l’eternità, no? Ma allora, mamma mia, tutto il tempo che abbiamo sulla terra
dev’essere dedicato al pensiero dell’eternità. Tutto il tempo che non si pensa
alla morte è tempo sperperato, perso. È incredibile come ci se ne possa
scordare un solo minuto. Perché il tempo – come dite voialtri? – il tempo è il
tesoro dell’eternità».
Il senso di queste parole è evidente. Come si può essere
cristiani – il protagonista vive con una madre che va a messa rigorosamente
tutte le domeniche, una madre che vive di certezze, di fede, di riti – e allo
stesso tempo non interrogarsi sull’aldilà, sulla fine che si trasforma in
inizio, sulla morte che diviene rinascita? Eliseo pare inetto, non riesce a
vivere come la maggior parte delle persone (cioè libero dall’ansia della
riflessione), proprio perché non sa cosa siano la superficialità e la
spensieratezza. Per lui tutto deve avere un significato, ogni cosa è in
funzione di qualcos’altro. Da qui scaturisce l’insoddisfazione, quell’incapacità
di sentirsi appagato che è alla base della sua sofferenza terrena. Ma il dolore
– qui risiede la grande intuizione di Borgese – può avere diverse connotazioni
e trasformarsi in un formidabile propulsore: «Nella buona stagione, quando la
terra è prosperosa e ricca, i suoi sapori ne sorvolano la superficie, e il
cielo attenuato da quell’odoroso velame appare estraneo e lontano, con le
stelle che brillano piccole e capricciose. Invece, quando giunge l’inverno,
sulla terra sfrondata e secca l’aria è tersa, sicché gli astri traspaiono
grandi nel limpido etere e gli uomini si sentono figli del cielo. Così è nella
vita di ognuno, che le cose sublimi non si vedono altro che dalla desolazione e
dal dolore, quando, appassite le speranze, albeggiano le fredde certezze».
Resta dunque da chiedersi cosa trasmetta, oggi come oggi,
un romanzo che insiste così a lungo sul tema della morte. Una società come la
nostra, così distratta e dinamica, nella quale tutti vanno sempre di fretta,
ossessionati dall’imperativo che vuole l’uomo efficiente e produttivo, sano e
bello, eternamente giovane e di successo, può trovare risposte in un libro che
si intitola I vivi e i morti? Alla
domanda risponde Annamaria Cavalli, curatrice della più recente edizione del
romanzo: «Non si deve […] escludere che i corsi e i ricorsi della storia
possano indurre i lettori a riprendere tra le mani testi per un po’ dimenticati
negli scaffali polverosi di una biblioteca, sottraendoli all’ingiurie del tempo
e riattualizzandone il senso alla luce di nuove esigenze sociali o di diverse aspirazioni
morali. […] Chi potrebbe negare, allora, che il nostro tempo, così affannato
nel rincorrere sempre più perfetti prodotti tecnologici, immerso in un mercato
vorace, che impone scelte solo materialistiche, non induca, per converso, nei
lettori – o almeno in certi lettori – un bisogno, per così dire, ‘di ritorno’,
ossia di un romanzo di idee più che di avventure, capace di rispondere ad ansie
spirituali e a domande metafisiche […]?».
Eliseo è dunque dotato di una sorta di seconda vista,
capace di vedere oltre i limiti tradizionalmente invalicabili per le persone
comuni. Egli guarda più avanti, al di là dei confini terreni dell’esistenza:
nei suoi occhi è presente «una luce affascinata come se vedesse cose invisibili
agli altri». In una realtà come quella odierna, Eliseo può incarnare la
necessità – forse non condivisa, o più probabilmente non ancora condivisa dalla
maggioranza degli individui – di andare oltre le apparenze. Il suo – se si
presta attenzione – è un messaggio di speranza per un mondo sempre più corrotto
dall’indifferenza.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi