(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2015)
Scritto nel 1930 e apparso per la prima volta tre anni
dopo in lingua tedesca, Fontamara
riscosse immediatamente un notevole successo in tutta Europa, eccezion fatta
per l’Italia, dove uscì solamente nel 1948. Le ragioni di questa discrepanza
sono riconducibili, da un lato, all’isolamento culturale della penisola nel
corso del Ventennio, giacché il romanzo – oggi considerato il capolavoro di
Ignazio Silone (pseudonimo di Ignazio Tranquilli), che lo compose in Svizzera,
dove si era rifugiato in esilio in conseguenza di una fervente militanza
antifascista – conteneva un manifesto atto di accusa contro la prepotenza del
regime di Mussolini. Ma, dall’altro, anche a una certa diffidenza della
critica, che impiegò diversi anni per riconoscerne l’assoluto valore, forse
convinta che si trattasse di un’opera “vecchia” e poco in sintonia – per via di
quello che veniva considerato una sorta di verismo tardivo – con le tematiche
più tradizionali della narrativa italiana del dopoguerra.
Fontamara (nome
immaginario che Silone attribuisce ad un emblematico «luogo di contadini poveri
situato nella Marsica», idealmente somigliante «a ogni villaggio meridionale il
quale sia un po’ fuori mano») è la storia delle lotte combattute dai «cafoni»
per riscattarsi dalla miseria e dalle angherie dei nuovi padroni fascisti. Nella
Prefazione l’autore immagina che tre di questi contadini (Giuvà, la moglie
Matalé e il loro figlio) si siano recati a fargli visita in Svizzera, spinti
dal bisogno di raccontare una serie di vicende tanto drammatiche quanto
insolite riguardanti il comune paese d’origine. «Quello che han detto, è in
questo libro», precisa Silone, che per la narrazione si avvale di una tecnica
“a più voci”, alternando le rievocazioni dei tre testimoni.
La vicenda ha inizio il primo giugno
di un anno imprecisato (anche se, come emergerà in seguito, siamo in epoca
fascista poco dopo la Conciliazione). Fontamara si ritrova al buio, essendo
stata sospesa l’erogazione dell’energia elettrica a causa dei ripetuti mancati
pagamenti delle bollette. Quella sera – caso insolito per una piccola località
di montagna – giunge in paese un forestiero, tal cav. Pelino, che con l’inganno
riesce a far firmare una misteriosa petizione a un gruppo di contadini di
ritorno dal lavoro. «È finito – egli afferma sibillino – il tempo in cui i
cafoni erano ignoranti e disprezzati. Ora ci sono delle nuove autorità che
hanno un gran rispetto per i cafoni e vogliono conoscere la loro opinione».
Peccato però che le firme siano poste su un foglio bianco, senza ulteriori
garanzie, e che la conversazione si chiuda con l’esplicita minaccia del cav.
Pelino («Vi prometto che avrete presto notizie di me»), infuriato per via di
alcune frasi “sovversive” incautamente pronunciate da uno dei contadini.
Le stranezze si ripetono l’indomani.
All’alba, i Fontamaresi si imbattono infatti in alcuni cantonieri provenienti
dal capoluogo, intenti a scavare un canale per deviare il corso del ruscello
che da secoli fornisce acqua alle terre del paese. A beneficiare
dell’intervento (che per gli abitanti di Fontamara costituisce una sorta di
sacrilegio: «Sarebbe proprio la fine di tutto, se il capriccio degli uomini
cominciasse a influire perfino sugli elementi creati da Dio») è un possidente
del capoluogo, tal don Carlo Magna, un noto signorotto senza scrupoli.
Incredule, sconvolte all’idea di
vedere compromessi per sempre i raccolti, le donne di Fontamara decidono di
recarsi in città per protestare con il sindaco. Al loro arrivo, però, viene
loro detto che il sindaco non esiste più e che al suo posto è stato nominato un
podestà, un forestiero soprannominato «l’Impresario» per via del suo fiuto per
gli affari. È lui, in realtà, il nuovo proprietario delle terre che
beneficeranno della deviazione del ruscello, ed è a lui, perciò, che le donne
devono presentare le proprie rimostranze. Giunte alla villa dell’Impresario,
esse vi trovano i notabili della città riuniti a banchetto. Tra questi è don
Circostanza, ex sindaco, detto «l’amico del popolo», che si offre di favorire
una mediazione: «Bisogna lasciare al podestà i tre quarti dell’acqua del
ruscello e i tre quarti dell’acqua che resta saranno per i Fontamaresi. Così
gli uni e gli altri avranno tre quarti».
Seguono giorni di incertezza. I
Fontamaresi non sanno in che consista l’accordo, ma sono tutti concordi nel
presagire l’ennesima truffa. Il più rassegnato è Berardo Viola, il protagonista
della seconda parte del romanzo, un poveraccio ridotto allo stato inferiore di
bracciante da una serie di sfortunate avversità. Il suo pensiero è tipico di
chi non ha più nulla da perdere: «Mettetegli fuoco alla conceria e vi
restituirà l’acqua. E se non capisce l’argomento, mettetegli fuoco al deposito
di legnami. […] E se è un idiota e continua a non capire, bruciategli la villa,
di notte, quando è a letto con donna Rosalia». I padroni – secondo Berardo –
prestano attenzione solo al profitto: ergo, per farsi ascoltare è inutile
perdersi in ragionamenti e argomentazioni. Occorre ledere gli interessi materiali
di chi, solo, ha il potere di cambiare le cose.
I fatti che seguono, in effetti,
sembrano dare ragione a Berardo. A Fontamara sopraggiunge il cursore del
comune, Innocenzo La Legge, il quale dispone che per ordine del podestà venga
affisso nella cantina del paese un cartello recante la scritta «In questo
locale è proibito parlare di politica», subito corretta – per via
dell’ignoranza dei Fontamaresi, che non sanno distinguere cosa sia politica e
cosa invece no – in «Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i
ragionamenti». I contadini non hanno idea del perché del provvedimento, ma è
evidente che Fontamara è finita nel mirino delle autorità quale presunto
focolaio di sovversione.
Tutto risulta ad ogni modo più chiaro
allorché, qualche tempo dopo, i cafoni di Fontamara sono invitati a prendere
parte a una manifestazione ad Avezzano, dove le autorità – così viene fatto loro
credere – intendono discutere di una nuova spartizione delle terre del Fucino.
Prima di salire sul camion che li porterà in città, ai contadini viene chiesto
di munirsi del gagliardetto, ma essi, ignorando del tutto cosa sia, portano con
sé lo stendardo di San Rocco, patrono del paese. All’arrivo ad Avezzano, i
Fontamaresi sono accolti con disprezzo dalle autorità fasciste e persino dal
prete; sono poi condotti nella piazza centrale, con l’istruzione di gridare
«Evviva» al passaggio delle personalità (tra cui il ministro) che sfilano in
successione. Terminata la manifestazione, nessuno sembra disposto a dare
udienza alla delegazione dei Fontamaresi: la loro presenza è infatti servita
solo per ingrossare la folla plaudente. Come sempre i contadini protestano,
chiedono di essere ricevuti dal ministro, ma infine don Circostanza spiega loro
che le terre sono state assegnate a chi ha i capitali per farle fruttare al
meglio. Prima di rientrare a Fontamara – nel frattempo si è fatto tardi e il camion
è partito senza aspettarli –, i cafoni sono avvicinati da un presunto «nemico
del Governo» (che in realtà è un poliziotto in incognito), ma sono messi in
guardia da un ragazzo e riprendono a piedi la via di casa.
Nei giorni seguenti si verificano
però altre stranezze. Su ordine dell’Impresario viene costruita una staccionata
di legno per recintare un «pezzo di tratturo», una fascia di suolo pubblico
adibita al transito delle greggi. Per i Fontamaresi è l’ennesima beffa, e
infatti la staccionata viene data due volte alle fiamme. Ma le autorità non si
lasciano certo intimidire, e anzi reagiscono con una spedizione punitiva di
camicie nere che si abbatte sulle donne inermi del paese. Nel frattempo il
ruscello viene deviato (a Fontamara non resta che un rigagnolo), col risultato
che la popolazione sprofonda ancor più nella miseria. Berardo Viola sembra il
solo determinato a reagire: avute cento lire in prestito da Giuvà, lascia il
paese in compagnia del figlio di quest’ultimo per recarsi a Roma in cerca di
lavoro. Vuole infatti mettere da parte qualche lira per acquistare un po’ di
terra da coltivare a Fontamara e potere finalmente sposare Elvira, la ragazza
di cui è da sempre innamorato.
Nella capitale, però, i due
Fontamaresi sono nuovamente truffati e sballottati da un ufficio all’altro:
dopo tante rassicurazioni, vengono infine respinti in quanto il certificato
rilasciato dal podestà per Berardo reca la dicitura «condotta pessima da punto
di vista nazionale». Sembra la fine di tutto, ma poco prima di salire sul treno
di ritorno i due cafoni sono avvicinati da un sovversivo (che è lo stesso
ragazzo che li aveva messi in guardia ad Avezzano) e convinti ad entrare in una
taverna per mangiare un boccone. Qui però, con un pretesto (viene trovato un
pacco di giornali contrari al regime), sono arrestati e tradotti in carcere.
Nella notte in cella Berardo stringe
amicizia con il ragazzo, e l’indomani – tra lo stupore generale – si autoaccusa
di essere il «Solito Sconosciuto», ovvero lo stampatore anonimo e
ricercatissimo responsabile della diffusione della stampa clandestina.
Torturato dai carcerieri, Berardo viene a sapere che il giovane avezzanese (che
l’ha convinto a schierarsi apertamente contro il fascismo) è stato liberato.
Sta per cedere, quando gli mostrano un giornaletto con la scritta «Viva Berardo
Viola», il racconto di tutti i soprusi subiti dagli abitanti di Fontamara e la
tragica notizia della morte di Elvira. A quel punto non ha più dubbi: sarà «il
primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri».
Pochi giorni dopo il corpo di Berardo
viene trovato appeso all’inferriata della sua cella (suicidio inscenato), e il
figlio di Giuvà è rimesso in libertà. Nel frattempo a Fontamara tutti sanno
della sorte di Berardo grazie alle notizie fatte trapelare dal Solito Sconosciuto.
Su indicazione di quest’ultimo viene dato alle stampe e distribuito un foglio
di battaglia dal titolo «Che fare?», che deve essere «il giornale dei cafoni,
anzi, il primo giornale dei cafoni». Si tratta del primo passo verso la
maturazione politica di un’intera comunità: un passo che tuttavia costa a
Fontamara un nuovo, mortale assalto delle squadre fasciste. Si salvano solo in
pochi, tra cui i tre narratori, decisi a offrire la propria drammatica
testimonianza. Nel loro bisogno di raccontare si rinfocola l’altruismo di
Berardo, autore di un gesto estremo, disperato, folle, che consente ai
sopravvissuti di acquisire piena coscienza della propria dignità.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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