(articolo apparso su Prima Pagina del 1° marzo 2015)
«Quando ho cominciato a scrivere Il visconte dimezzato, volevo soprattutto scrivere una storia
divertente per divertire me stesso, e possibilmente per divertire gli altri;
avevo questa immagine di un uomo tagliato in due ed ho pensato che questo tema
dell’uomo tagliato in due, dell’uomo dimezzato fosse un tema significativo,
avesse un significato contemporaneo: tutti ci sentiamo in qualche modo
incompleti, tutti realizziamo una parte di noi stessi e non l’altra».
Con queste parole Italo Calvino presentava il suo romanzo
a trent’anni di distanza dalla prima edizione: era infatti il 1983, e lo
scrittore ligure rilasciava un’intervista nella quale intendeva fornire una
chiave di lettura de Il visconte
dimezzato, uscito presso Einaudi nel 1952 e nel frattempo divenuto celebre.
In sostanza, Calvino è affascinato dal tema del doppio, dall’idea cioè – che si
lega a una ben delineata tradizione letteraria, facente capo per lo più a Lo strano caso del dr. Jekyll e di Mr. Hyde
di Stevenson – che in ogni uomo coesistano due nature, tra loro antitetiche ma
imprescindibili l’una per l’altra. Il romanzo, però, non è una trattazione
scientifica, e quindi occorre tenere ben presenti le legittime aspettative del
lettore, che desidera “divertirsi” pagina dopo pagina, a prescindere dal
significato più profondo che l’autore intende trasmettere. «Io penso che il
divertimento sia una cosa seria», conclude Calvino, sottintendendo con ciò che
compito della narrativa è far riflettere attraverso il racconto di una storia,
fermo restando che i livelli di lettura sono di fatto soggettivi.
Il romanzo si apre con una scena militare: accompagnato
dal suo scudiero Curzio, il visconte Medardo di Terralba giunge
all’accampamento cristiano in Boemia, nel corso di una guerra contro i turchi.
L’indomani, allorché prende parte alla sua prima battaglia, viene colpito in
pieno petto da una palla di cannone, restando in terra «orrendamente mutilato».
Del visconte resta intatta una sola metà del corpo (la destra), prontamente
medicata, fasciata e ricucita dai medici dell’ospedale da campo. «Adesso era
vivo e dimezzato», conclude il narratore – ovvero un giovane nipote di Medardo,
di cui non viene rivelato il nome –, sancendo di fatto il passaggio ad un
racconto di tipo fiabesco, caratterizzato dalla libera fusione di elementi
realistici e fatti inverosimili.
Il racconto riprende con il ritorno
del visconte a Terralba. Ma il Medardo rientrato dalla guerra non è quello che
la gente ricorda. In breve, i sudditi sono costretti a prendere atto del fatto
che del loro signore è sopravvissuta solo la parte malvagia, che ama
sbizzarrirsi perpetrando le più assurde nefandezze. Racconta infatti il nipote
narratore: «Dove si sentiva il rumor di zoccoli del suo cavallo tutti
scappavano […] e portavano via i bambini e gli animali, e temevano per le
piante, perché la cattiveria del visconte non risparmiava nessuno e poteva
scatenarsi da un momento all’altro nelle azioni più impreviste e
incomprensibili». Medardo, in effetti, è irriconoscibile: dapprima taglia in
due un’averla inviatagli dal padre – che l’aveva addestrata a volare nelle
stanze del figlio –, causando la morte di crepacuore dell’anziano genitore; poi
offre funghi velenosi al nipote, taglia a metà piante e animali, fa costruire
una sofisticata forca multipla per l’impiccagione di semplici bracconieri e
«per appender dieci gatti alternati ogni due rei», appicca il fuoco a fienili e
abitazioni, opprime gli ugonotti residenti a Col Gerbido e condanna la vecchia
balia Sebastiana – colpevole di averlo più volte rimproverato – all’esilio tra
i lebbrosi, nella comunità di Pratofungo.
Nel frattempo il nipote del visconte
– che ha pure trovato modo di fare visita a Sebastiana, scampata al contagio
grazie alla perfetta conoscenza delle erbe curative – trascorre buona parte
delle sue giornate in compagnia del dottor Trelawney, un medico inglese
naufragato nei pressi di Terralba dopo essere stato a lungo membro
dell’equipaggio dell’esploratore James Cook. I due conducono stravaganti
ricerche sui fuochi fatui, appostandosi di notte nei cimiteri e girovagando tra
i boschi: di fatto, si interessano di tutto meno che della medicina e dei metodi
per curare gli esseri umani, e sono ben consapevoli di dover mantenere il più
possibile le distanze dal visconte.
Questi è ormai per tutti una seria
minaccia. E quando si invaghisce della pastorella Pamela, la giovane è ben
consapevole del pericolo che corre, e lo respinge. Per tutta risposta, Medardo
infierisce sui suoi genitori, convincendoli a concedere la mano della figlia:
ma Pamela, determinata a tenere duro, abbandona la famiglia e fugge nei boschi.
Poco dopo avviene il colpo di scena:
nei pressi di Pratofungo, il visconte fa visita al nipote, intento a pescare
anguille, e lo salva dal morso di un ragno velenoso. In breve, i gesti
magnanimi di Medardo si moltiplicano (aiuta bambini e povere vedove, elargisce
doni, si prende cura degli animali, soccorre i lebbrosi…), finché gli abitanti
di Terralba non realizzano che del visconte è ritornata anche la metà buona (la
parte sinistra), anch’essa evidentemente salvatasi per miracolo in terra di
Boemia. Il risultato è che ora esistono due versioni di Medardo: il Gramo,
responsabile degli atti di malvagità, e il Buono, altruista fin all’eccesso.
Per ironia della sorte, anche
quest’ultimo si innamora di Pamela, ma al pari del Gramo è respinto. Alla fine,
tuttavia, l’insistenza ostinata delle due metà del visconte ha la meglio sulla
resistenza della ragazza, la quale acconsente al matrimonio, pur prendendosi
gioco dei maldestri tentativi dei due Medardo (il Gramo, infatti, aveva fatto
pressioni sulla madre di Pamela perché convincesse la figlia a sposare il
Buono, con l’intento poi di rivendicare come propria la futura moglie di
Medardo di Terralba; il Buono aveva invece confessato al padre di lei di voler
abbandonare le proprie terre, così che Pamela potesse sposare il Gramo.
Risultato: quest’ultimo si convince di poter sposare direttamente Pamela, senza
ricorrere al suo iniziale stratagemma, mentre il Buono – rincuorato dalla
giovane, che gli assicura di volerlo come marito – ritorna sulla sua decisione
per non farle un torto). L’equivoco si scioglie ovviamente il giorno delle
nozze: indispettito, il Gramo sfida il Buono a duello, ma entrambi si feriscono
nel punto in cui erano stati suturati dopo l’incidente della palla di cannone.
Solo l’intervento provvidenziale del dottor Trelawney salva il visconte, le cui
metà vengono ricucite e fasciate in modo da combaciare nuovamente l’una con
l’altra. «Finalmente avrò uno sposo con tutti gli attributi», commenta infine
soddisfatta Pamela.
Il romanzo si chiude con l’addio del
dottor Trelawney, che riprende il suo posto nell’equipaggio di James Cook senza
aver avuto modo di salutare il nipote di Medardo, distrattosi nei boschi. Queste
le parole conclusive del giovane narratore: «Lo seppi troppo tardi e presi a
correre verso la marina, gridando: “Dottore! Dottor Trelawney! Mi prenda con
sé! Non può lasciarmi qui, dottore!”. Ma già le navi stavano scomparendo
all’orizzonte e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e
di fuochi fatui».
L’aspetto più interessante del
romanzo di Calvino è il giudizio, sostanzialmente negativo, che il narratore dà
del Buono: «Con questo esile figuro ritto su una gamba sola, nerovestito,
cerimonioso e sputasentenze, nessuno poteva fare il piacer suo senz’essere
recriminato in piazza suscitando malignità e ripicche». Il senso di questa
presa di posizione non è immediato: perché mai, infatti, gli abitanti di
Terralba dovrebbero mal sopportare una persona che sa dire e fare
esclusivamente del bene, tanto da convincersi – come si comincia a dire in
paese – che «delle due metà è peggio la buona della grama»? A pensarci bene, il
motivo è ovvio: siccome non esistono persone a lui simili, il Buono è una
presenza ingombrante, in quanto funge da specchio che riflette in continuazione
il male che è radicato in ogni essere umano. Ben diversa, infatti, è la
condizione del Gramo, il quale è sì l’incarnazione di tutto ciò che spaventa,
ma proprio per questo è tenuto a distanza, non penetra nelle coscienze. Delle
due metà del visconte, una incute timore per il male che può portare dall’esterno, l’altra terrorizza per il
male che disvela all’interno di ogni
singolo individuo.
Calvino, in altre parole, ci sta
dicendo che nell’animo umano convivono opposte nature, compresa una componente
maligna che è bene esplorare a fondo, se vogliamo realmente capire chi siamo. Nessuno
sarà mai un intero, non esistono Grami e Buoni, giacché in ogni persona il
tendere al bene o al male sarà sempre imperfetto, incompleto, incompiuto. Anche
la metà buona di Medardo ne è consapevole, come sottolinea in occasione di un
colloquio con la futura moglie: «O Pamela, questo è il bene dell’essere
dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna
ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo
e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da
intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto,
ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non
conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai
con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando
i loro».
Al riguardo, il finale del romanzo è
significativo. Anche il narratore, osservatore distaccato delle disavventure
dello zio, si ritrova dimezzato («Io invece, in mezzo a tanto fervore
d’interezza, mi sentivo sempre più triste e manchevole. Alle volte uno si crede
incompleto ed è soltanto giovane»), abbandonato dall’amico dottor Trelawney,
costretto a vivere in un mondo non più fiabesco – fatto di illusioni (si noti
che le ultime due parole del romanzo sono «fuochi fatui») e di responsabilità
–, dove tutto è incompleto e niente dà certezze.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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