martedì 14 aprile 2015

«I vivi e i morti»: l’ossessione dell’aldilà e la necessità esistenziale di andare oltre le apparenze

(articolo apparso su Prima Pagina del 12 aprile 2015)

Apparso nel 1923, I vivi e i morti di Giuseppe Antonio Borgese è certamente un romanzo poco conosciuto, di non facile lettura e piuttosto spigoloso in quanto a tematiche affrontate. Alla base della vicenda sta infatti la volontà di regressione del protagonista, Eliseo Gaddi, attratto dalla vita di campagna dopo anni trascorsi in città, determinato a scoprire se stesso per placare un martellante senso di inadeguatezza e di perenne frustrazione esistenziale. In sostanza, I vivi e i morti è la storia di una ricerca tutta interiore, di un percorso introspettivo che individua nella solitudine una provvidenziale via d’uscita per sfuggire alle pastoie del corpo.
Il romanzo si apre con Eliseo che tenta di scrivere le proprie memorie dopo essere tornato a Miriano, nella casa della madre. Ha deciso infatti di lasciare Milano, lui professore e giornalista, per ritirarsi definitivamente in campagna, «ove non è nulla che non ricordi la perpetuità del cielo e il breve tempo d’ogni cosa terrestre». Eliseo è insoddisfatto di se stesso: tenta di scrivere, ma subito realizza che la sua vita precedente – ancorché egli non abbia ancora quarant’anni – non è altro che un lungo «passato senza né filo né segno». Posa la penna. Non può scrivere perché sente di avere condotto un’esistenza vacua, e «ora è tempo finalmente di vivere, non di scrivere».
A Miriano Eliseo intende occuparsi di agricoltura, aiutando la madre e il fratello Michele nella gestione delle proprietà di famiglia. Con quest’ultimo ha però una violenta discussione: si parla della divisione dell’eredità (a Eliseo spetterebbe il podere della Cascinetta, ma il fratello dubita che egli sia in grado di farlo fruttare) e della prospettiva di un’imminente collaborazione. Michele – che giudica Eliseo una persona indolente e non tollera che questi si sia immischiato nei suoi affari – è furente, «gonfio d’ira quasi da goderne»: sotto la grandine, torna a casa turbato da mille pensieri. Nella notte si sente male, cade in preda al delirio e infine spira poco dopo l’alba.
Ricevuta la tragica notizia, Eliseo prova un forte senso di angoscia per non aver avuto occasione di riappacificarsi con Michele. Col tempo, comprende che la presenza del fratello si è fatta paradossalmente più ingombrante dopo la morte, una sorta di ossessione – acuita dal senso di colpa – da cui non sarà facile liberarsi. Eliseo si ritrova quindi ancora più solo con se stesso: vorrebbe essere di sostegno alla madre anziana, già vedova, ma realizza di essere piuttosto lui ad avere bisogno di lei. Tenta di distrarsi supervisionando il lavoro nei campi, si lascia sedurre dal fascino delle speculazioni (che tuttavia lo portano a fare investimenti poco proficui) e infine cerca un po’ di pace e di conforto nello studio di alcuni autori classici, passando da Leopardi a Manzoni.
Trascorrono alcuni mesi e Fiora, la madre, è sempre più in allarme a causa delle stravaganze del figlio, incapace di vincere il rimorso (come provano le sue assidue – ed eccessive – visite al cimitero, sulla tomba di Michele). Finalmente, giunta l’estate, Eliseo si lascia convincere ad abbandonare per qualche tempo la campagna per concedersi una vacanza, dapprima a Milano, poi a Venezia, dove ha modo di riannodare vecchi rapporti di amicizia con la ricca famiglia Leri. Qui si invaghisce, ricambiato, della bella Sofronia Leri, una ragazza affascinante e colta, amante della poesia. Ma persino nell’amore Eliseo palesa tutta la propria inettitudine: incapace di abbandonarsi al sentimento e di immaginare per se stesso (e, di riflesso, per Sofronia) una vita felice, finisce per rimpiangere la passata solitudine, giacché, inesorabilmente, si sente «tratto in opposte direzioni da un impeto di amore e da un inesplicabile sentimento di pietà».
La sola certezza che gli resti è la madre, presso la quale – dopo essersi separato da Sofronia, andata nel frattempo in sposa a un ricco e insignificante borghese – fa ritorno senza più alcuna valida aspettativa per il futuro. Di fatto, Eliseo conduce un’esistenza impalpabile, in apparenza priva di significato, sempre più afflitta da turbamenti psichici e, in definitiva, da «una inestinguibile sete dell’Eterno». La sua vita è come corrosa, giorno dopo giorno, dalla morte, fattasi ossessione anche in conseguenza di un forte senso di estraneità rispetto a un mondo che sta cambiando (da poco è scoppiata la Prima guerra mondiale, ed Eliseo – che afferma di aver sempre preferito «l’essere puri all’essere forti» – è del tutto consapevole della propria inadeguatezza) e sembra non promettere nulla di buono.
Sempre più turbato, Eliseo incomincia ad avere visioni, e si convince di essere in contatto con lo spirito di un vecchio prozio (Alvise), morto assassinato anni addietro. Durante una seduta spiritica subisce però un forte trauma psichico, e finisce per ammalarsi. Solo le cure della madre – incarnazione di quello che potrebbe definirsi un eroico pragmatismo – lo salvano dalla morte, anche se egli potrà dirsi guarito solo dopo la dipartita di Fiora. Rimasto solo, senza genitori, con la sorella e gli amici lontani, il fratello defunto, Eliseo volge continuamente il pensiero a chi ha condiviso le sue sofferenze terrene (ai vivi e ai morti che danno il titolo al romanzo), e nella comunione di spirito con le persone care trova finalmente la tanto agognata pace interiore. «Egli visse ancora tre anni»: così si conclude, laconicamente, la narrazione, come a dire che, dopo aver scoperto Dio attraverso il dolore, l’attesa della fine non è altro che una breve parentesi temporale che separa l’uomo dall’eterno.
Eliseo, quindi, alla fine guarisce. Tutta la sua inettitudine, la sua ostinata introspezione alla ricerca di un senso delle cose, trovano uno sbocco nella contemplazione della morte quale unico rimedio al male di vivere. Tutto nella morte si chiarisce: il perché della sofferenza, il mistero dei legami affettivi, il trauma legato alla scomparsa delle persone care (le quali, seppur dall’aldilà, sono una presenza ingombrante – ma allo stesso tempo decisiva – per i vivi). Dialogando con la madre (che è molto religiosa), Eliseo ha uno sfogo che chiarisce il suo stato d’animo: «Secondo te, questa vita è un passaggio, no? Lo ammetti! Secondo te quella che conta è l’eternità, no? Ma allora, mamma mia, tutto il tempo che abbiamo sulla terra dev’essere dedicato al pensiero dell’eternità. Tutto il tempo che non si pensa alla morte è tempo sperperato, perso. È incredibile come ci se ne possa scordare un solo minuto. Perché il tempo – come dite voialtri? – il tempo è il tesoro dell’eternità».
Il senso di queste parole è evidente. Come si può essere cristiani – il protagonista vive con una madre che va a messa rigorosamente tutte le domeniche, una madre che vive di certezze, di fede, di riti – e allo stesso tempo non interrogarsi sull’aldilà, sulla fine che si trasforma in inizio, sulla morte che diviene rinascita? Eliseo pare inetto, non riesce a vivere come la maggior parte delle persone (cioè libero dall’ansia della riflessione), proprio perché non sa cosa siano la superficialità e la spensieratezza. Per lui tutto deve avere un significato, ogni cosa è in funzione di qualcos’altro. Da qui scaturisce l’insoddisfazione, quell’incapacità di sentirsi appagato che è alla base della sua sofferenza terrena. Ma il dolore – qui risiede la grande intuizione di Borgese – può avere diverse connotazioni e trasformarsi in un formidabile propulsore: «Nella buona stagione, quando la terra è prosperosa e ricca, i suoi sapori ne sorvolano la superficie, e il cielo attenuato da quell’odoroso velame appare estraneo e lontano, con le stelle che brillano piccole e capricciose. Invece, quando giunge l’inverno, sulla terra sfrondata e secca l’aria è tersa, sicché gli astri traspaiono grandi nel limpido etere e gli uomini si sentono figli del cielo. Così è nella vita di ognuno, che le cose sublimi non si vedono altro che dalla desolazione e dal dolore, quando, appassite le speranze, albeggiano le fredde certezze».
Resta dunque da chiedersi cosa trasmetta, oggi come oggi, un romanzo che insiste così a lungo sul tema della morte. Una società come la nostra, così distratta e dinamica, nella quale tutti vanno sempre di fretta, ossessionati dall’imperativo che vuole l’uomo efficiente e produttivo, sano e bello, eternamente giovane e di successo, può trovare risposte in un libro che si intitola I vivi e i morti? Alla domanda risponde Annamaria Cavalli, curatrice della più recente edizione del romanzo: «Non si deve […] escludere che i corsi e i ricorsi della storia possano indurre i lettori a riprendere tra le mani testi per un po’ dimenticati negli scaffali polverosi di una biblioteca, sottraendoli all’ingiurie del tempo e riattualizzandone il senso alla luce di nuove esigenze sociali o di diverse aspirazioni morali. […] Chi potrebbe negare, allora, che il nostro tempo, così affannato nel rincorrere sempre più perfetti prodotti tecnologici, immerso in un mercato vorace, che impone scelte solo materialistiche, non induca, per converso, nei lettori – o almeno in certi lettori – un bisogno, per così dire, ‘di ritorno’, ossia di un romanzo di idee più che di avventure, capace di rispondere ad ansie spirituali e a domande metafisiche […]?».
Eliseo è dunque dotato di una sorta di seconda vista, capace di vedere oltre i limiti tradizionalmente invalicabili per le persone comuni. Egli guarda più avanti, al di là dei confini terreni dell’esistenza: nei suoi occhi è presente «una luce affascinata come se vedesse cose invisibili agli altri». In una realtà come quella odierna, Eliseo può incarnare la necessità – forse non condivisa, o più probabilmente non ancora condivisa dalla maggioranza degli individui – di andare oltre le apparenze. Il suo – se si presta attenzione – è un messaggio di speranza per un mondo sempre più corrotto dall’indifferenza.

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venerdì 3 aprile 2015

«Fontamara»: l’eroismo della ribellione e la nobiltà del sacrificio

(articolo apparso su Prima Pagina del 29 marzo 2015)

Scritto nel 1930 e apparso per la prima volta tre anni dopo in lingua tedesca, Fontamara riscosse immediatamente un notevole successo in tutta Europa, eccezion fatta per l’Italia, dove uscì solamente nel 1948. Le ragioni di questa discrepanza sono riconducibili, da un lato, all’isolamento culturale della penisola nel corso del Ventennio, giacché il romanzo – oggi considerato il capolavoro di Ignazio Silone (pseudonimo di Ignazio Tranquilli), che lo compose in Svizzera, dove si era rifugiato in esilio in conseguenza di una fervente militanza antifascista – conteneva un manifesto atto di accusa contro la prepotenza del regime di Mussolini. Ma, dall’altro, anche a una certa diffidenza della critica, che impiegò diversi anni per riconoscerne l’assoluto valore, forse convinta che si trattasse di un’opera “vecchia” e poco in sintonia – per via di quello che veniva considerato una sorta di verismo tardivo – con le tematiche più tradizionali della narrativa italiana del dopoguerra.
Fontamara (nome immaginario che Silone attribuisce ad un emblematico «luogo di contadini poveri situato nella Marsica», idealmente somigliante «a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano») è la storia delle lotte combattute dai «cafoni» per riscattarsi dalla miseria e dalle angherie dei nuovi padroni fascisti. Nella Prefazione l’autore immagina che tre di questi contadini (Giuvà, la moglie Matalé e il loro figlio) si siano recati a fargli visita in Svizzera, spinti dal bisogno di raccontare una serie di vicende tanto drammatiche quanto insolite riguardanti il comune paese d’origine. «Quello che han detto, è in questo libro», precisa Silone, che per la narrazione si avvale di una tecnica “a più voci”, alternando le rievocazioni dei tre testimoni.
La vicenda ha inizio il primo giugno di un anno imprecisato (anche se, come emergerà in seguito, siamo in epoca fascista poco dopo la Conciliazione). Fontamara si ritrova al buio, essendo stata sospesa l’erogazione dell’energia elettrica a causa dei ripetuti mancati pagamenti delle bollette. Quella sera – caso insolito per una piccola località di montagna – giunge in paese un forestiero, tal cav. Pelino, che con l’inganno riesce a far firmare una misteriosa petizione a un gruppo di contadini di ritorno dal lavoro. «È finito – egli afferma sibillino – il tempo in cui i cafoni erano ignoranti e disprezzati. Ora ci sono delle nuove autorità che hanno un gran rispetto per i cafoni e vogliono conoscere la loro opinione». Peccato però che le firme siano poste su un foglio bianco, senza ulteriori garanzie, e che la conversazione si chiuda con l’esplicita minaccia del cav. Pelino («Vi prometto che avrete presto notizie di me»), infuriato per via di alcune frasi “sovversive” incautamente pronunciate da uno dei contadini.
Le stranezze si ripetono l’indomani. All’alba, i Fontamaresi si imbattono infatti in alcuni cantonieri provenienti dal capoluogo, intenti a scavare un canale per deviare il corso del ruscello che da secoli fornisce acqua alle terre del paese. A beneficiare dell’intervento (che per gli abitanti di Fontamara costituisce una sorta di sacrilegio: «Sarebbe proprio la fine di tutto, se il capriccio degli uomini cominciasse a influire perfino sugli elementi creati da Dio») è un possidente del capoluogo, tal don Carlo Magna, un noto signorotto senza scrupoli.
Incredule, sconvolte all’idea di vedere compromessi per sempre i raccolti, le donne di Fontamara decidono di recarsi in città per protestare con il sindaco. Al loro arrivo, però, viene loro detto che il sindaco non esiste più e che al suo posto è stato nominato un podestà, un forestiero soprannominato «l’Impresario» per via del suo fiuto per gli affari. È lui, in realtà, il nuovo proprietario delle terre che beneficeranno della deviazione del ruscello, ed è a lui, perciò, che le donne devono presentare le proprie rimostranze. Giunte alla villa dell’Impresario, esse vi trovano i notabili della città riuniti a banchetto. Tra questi è don Circostanza, ex sindaco, detto «l’amico del popolo», che si offre di favorire una mediazione: «Bisogna lasciare al podestà i tre quarti dell’acqua del ruscello e i tre quarti dell’acqua che resta saranno per i Fontamaresi. Così gli uni e gli altri avranno tre quarti».
Seguono giorni di incertezza. I Fontamaresi non sanno in che consista l’accordo, ma sono tutti concordi nel presagire l’ennesima truffa. Il più rassegnato è Berardo Viola, il protagonista della seconda parte del romanzo, un poveraccio ridotto allo stato inferiore di bracciante da una serie di sfortunate avversità. Il suo pensiero è tipico di chi non ha più nulla da perdere: «Mettetegli fuoco alla conceria e vi restituirà l’acqua. E se non capisce l’argomento, mettetegli fuoco al deposito di legnami. […] E se è un idiota e continua a non capire, bruciategli la villa, di notte, quando è a letto con donna Rosalia». I padroni – secondo Berardo – prestano attenzione solo al profitto: ergo, per farsi ascoltare è inutile perdersi in ragionamenti e argomentazioni. Occorre ledere gli interessi materiali di chi, solo, ha il potere di cambiare le cose.
I fatti che seguono, in effetti, sembrano dare ragione a Berardo. A Fontamara sopraggiunge il cursore del comune, Innocenzo La Legge, il quale dispone che per ordine del podestà venga affisso nella cantina del paese un cartello recante la scritta «In questo locale è proibito parlare di politica», subito corretta – per via dell’ignoranza dei Fontamaresi, che non sanno distinguere cosa sia politica e cosa invece no – in «Per ordine del Podestà sono proibiti tutti i ragionamenti». I contadini non hanno idea del perché del provvedimento, ma è evidente che Fontamara è finita nel mirino delle autorità quale presunto focolaio di sovversione.
Tutto risulta ad ogni modo più chiaro allorché, qualche tempo dopo, i cafoni di Fontamara sono invitati a prendere parte a una manifestazione ad Avezzano, dove le autorità – così viene fatto loro credere – intendono discutere di una nuova spartizione delle terre del Fucino. Prima di salire sul camion che li porterà in città, ai contadini viene chiesto di munirsi del gagliardetto, ma essi, ignorando del tutto cosa sia, portano con sé lo stendardo di San Rocco, patrono del paese. All’arrivo ad Avezzano, i Fontamaresi sono accolti con disprezzo dalle autorità fasciste e persino dal prete; sono poi condotti nella piazza centrale, con l’istruzione di gridare «Evviva» al passaggio delle personalità (tra cui il ministro) che sfilano in successione. Terminata la manifestazione, nessuno sembra disposto a dare udienza alla delegazione dei Fontamaresi: la loro presenza è infatti servita solo per ingrossare la folla plaudente. Come sempre i contadini protestano, chiedono di essere ricevuti dal ministro, ma infine don Circostanza spiega loro che le terre sono state assegnate a chi ha i capitali per farle fruttare al meglio. Prima di rientrare a Fontamara – nel frattempo si è fatto tardi e il camion è partito senza aspettarli –, i cafoni sono avvicinati da un presunto «nemico del Governo» (che in realtà è un poliziotto in incognito), ma sono messi in guardia da un ragazzo e riprendono a piedi la via di casa.
Nei giorni seguenti si verificano però altre stranezze. Su ordine dell’Impresario viene costruita una staccionata di legno per recintare un «pezzo di tratturo», una fascia di suolo pubblico adibita al transito delle greggi. Per i Fontamaresi è l’ennesima beffa, e infatti la staccionata viene data due volte alle fiamme. Ma le autorità non si lasciano certo intimidire, e anzi reagiscono con una spedizione punitiva di camicie nere che si abbatte sulle donne inermi del paese. Nel frattempo il ruscello viene deviato (a Fontamara non resta che un rigagnolo), col risultato che la popolazione sprofonda ancor più nella miseria. Berardo Viola sembra il solo determinato a reagire: avute cento lire in prestito da Giuvà, lascia il paese in compagnia del figlio di quest’ultimo per recarsi a Roma in cerca di lavoro. Vuole infatti mettere da parte qualche lira per acquistare un po’ di terra da coltivare a Fontamara e potere finalmente sposare Elvira, la ragazza di cui è da sempre innamorato.
Nella capitale, però, i due Fontamaresi sono nuovamente truffati e sballottati da un ufficio all’altro: dopo tante rassicurazioni, vengono infine respinti in quanto il certificato rilasciato dal podestà per Berardo reca la dicitura «condotta pessima da punto di vista nazionale». Sembra la fine di tutto, ma poco prima di salire sul treno di ritorno i due cafoni sono avvicinati da un sovversivo (che è lo stesso ragazzo che li aveva messi in guardia ad Avezzano) e convinti ad entrare in una taverna per mangiare un boccone. Qui però, con un pretesto (viene trovato un pacco di giornali contrari al regime), sono arrestati e tradotti in carcere.
Nella notte in cella Berardo stringe amicizia con il ragazzo, e l’indomani – tra lo stupore generale – si autoaccusa di essere il «Solito Sconosciuto», ovvero lo stampatore anonimo e ricercatissimo responsabile della diffusione della stampa clandestina. Torturato dai carcerieri, Berardo viene a sapere che il giovane avezzanese (che l’ha convinto a schierarsi apertamente contro il fascismo) è stato liberato. Sta per cedere, quando gli mostrano un giornaletto con la scritta «Viva Berardo Viola», il racconto di tutti i soprusi subiti dagli abitanti di Fontamara e la tragica notizia della morte di Elvira. A quel punto non ha più dubbi: sarà «il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri».
Pochi giorni dopo il corpo di Berardo viene trovato appeso all’inferriata della sua cella (suicidio inscenato), e il figlio di Giuvà è rimesso in libertà. Nel frattempo a Fontamara tutti sanno della sorte di Berardo grazie alle notizie fatte trapelare dal Solito Sconosciuto. Su indicazione di quest’ultimo viene dato alle stampe e distribuito un foglio di battaglia dal titolo «Che fare?», che deve essere «il giornale dei cafoni, anzi, il primo giornale dei cafoni». Si tratta del primo passo verso la maturazione politica di un’intera comunità: un passo che tuttavia costa a Fontamara un nuovo, mortale assalto delle squadre fasciste. Si salvano solo in pochi, tra cui i tre narratori, decisi a offrire la propria drammatica testimonianza. Nel loro bisogno di raccontare si rinfocola l’altruismo di Berardo, autore di un gesto estremo, disperato, folle, che consente ai sopravvissuti di acquisire piena coscienza della propria dignità.

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