(articolo apparso su Prima Pagina del 15 febbraio 2015)
Uscito nel 1947, Il
sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino è senza dubbio uno dei romanzi
più riusciti nel vasto panorama della cosiddetta letteratura resistenziale. I
suoi pregi fondamentali sono essenzialmente due: da un lato la totale assenza
di pagine celebrative o caratterizzate da un tono didascalico; dall’altro la
scelta di raccontare la vicenda attraverso il punto di vista straniante e
deformante del protagonista Pin, un bambino trascinato a forza nel mondo dei
grandi e costretto a vivere una guerra che ai suoi occhi pare un gioco al contempo
minaccioso ed entusiasmante.
Pin è un bambino orfano di madre, abbandonato dal padre
marinaio e affidato alle cure della sorella prostituta, che lo cresce con la
più totale trascuratezza. I due vivono a San Remo, sulla riviera ligure,
abbandonati a se stessi e costretti ad arrangiarsi come possono nel tragico
contesto della guerra civile, dopo l’8 settembre 1943.
A dispetto della sua giovane età, Pin fa già parte del
mondo degli adulti. Frequenta l’osteria, dove intrattiene gli avventori con
canzonacce e battute volgari, e più in generale conduce un’esistenza sbandata
scorrazzando per i vicoli degli ambienti malfamati della città. Dal suo punto
di vista, gli uomini sono esseri privi di logica, inspiegabilmente attratti
dall’altro sesso e incapaci di comportarsi con un minimo di coerenza. Per Pin,
infatti, l’esigenza primaria è quella di farsi pienamente accettare da un mondo
dal quale si sente respinto, emarginato in quanto bambino: ma ogni tentativo
che fa in questa direzione è frustrato dall’inaffidabilità degli adulti, che
prima lo illudono, poi si prendono gioco di lui.
Per questo Pin ama farsi beffe dei grandi, anche se
farebbe di tutto pur di compiacerli. Così, quando all’osteria gli chiedono di
rubare la pistola P38 in dotazione al marinaio tedesco che abitualmente fa
visita a sua sorella, egli non si tira indietro e porta a termine con successo
la “missione”. Si aspetterebbe un premio per il suo atto di lealtà e coraggio,
ma al suo ritorno è accolto con freddezza, quasi con indifferenza. Nessuno, infatti,
fa caso alla pistola che nasconde sotto la giacchetta; il che significa che
nessuno – realizza prontamente il ragazzo – lo aveva realmente creduto
all’altezza del compito assegnatogli.
Pin si sente tradito e umiliato.
Decide pertanto di tenere per sé la pistola, e per evitare di essere scoperto
va a seppellirla nei campi in un posto segreto – che solo lui conosce –, «dove
fanno il nido i ragni». Scoperto dai tedeschi – che lo trovano con il
cinturone, ma senza la fondina della pistola –, il ragazzo è condotto in
prigione, ma riesce ad evadere con l’aiuto di Lupo Rosso, un giovane ed audace
partigiano. Una volta fuori, però, i due si separano, e Pin si ritrova a
girovagare solitario per i boschi, finché non si imbatte in Cugino, un omone
dall’aria mite che lo conduce al suo distaccamento di partigiani. La formazione
è sotto il comando di un certo Dritto ed è composta da uomini ritenuti poco
affidabili. «Nel distaccamento del Dritto ci mandano le carogne, i più
scalcinati della brigata», dirà in seguito Lupo Rosso, in occasione di un
fortuito incontro con il piccolo vecchio compagno di prigionia.
A Pin viene assegnato il ruolo di
aiuto-cuciniere, in quello che a lui sembra un grande fantastico gioco fatto di
armi, di spedizioni, di prigionieri e di tedeschi dalla parlata incomprensibile.
La formazione è però realmente sgangherata: in pratica vi succede di tutto, con
il Dritto che inavvertitamente dà fuoco all’accampamento, litiga con Pelle
causandone indirettamente il tradimento e intrattiene una relazione clandestina
con Giglia, moglie di Mancino (il cuoco). Di fatto, sarà proprio l’atto di
denuncia dei due amanti la causa dell’allontanamento di Pin (il quale,
naturalmente, crede di scherzare quando racconta ciò che ha visto e apostrofa Mancino
dandogli del cornuto). Disgustato dal mondo degli adulti, il ragazzo abbandona
il distaccamento e si rifugia nel suo luogo segreto: ma quando vi giunge,
scopre che il terreno è stato smosso e la P38 è sparita. Pin non ha dubbi: è
stato Pelle – che gli aveva detto di sapere dove vanno a fare il nido i ragni –
a sottrargli la pistola, un oggetto cui lui, bambino sognatore, si era
affezionato in quanto sinonimo di indipendenza e di potere sugli uomini.
Sconsolato, Pin fa ritorno a casa. Vi
ritrova la sorella, nel frattempo divenuta spia dei tedeschi, e per coincidenza
recupera la pistola, donata alla donna proprio da Pelle, che era stato suo
cliente. Lasciata l’abitazione, il ragazzo si ritira nei boschi, dove per caso
incontra Cugino, «col mitra e il berrettino di lana». Il partigiano è un tipo
scontroso e solitario, ma è l’unico che tratta Pin con umanità («Ha trovato
Cugino, e Cugino è il grande amico tanto cercato, quello che s’interessa dei
nidi di ragno»). D’un tratto, però, rivolge al ragazzo una domanda inattesa: «Vedi:
son già mesi e mesi che non vado con una donna… Tu capisci queste cose». Pin è
lusingato poiché si sente di nuovo importante, anche se avrebbe preferito che
Cugino non fosse come tutti gli altri adulti, con quella loro incomprensibile
attrazione per l’altro sesso. Ad ogni modo, dà istruzioni su come trovare la
sorella, e i due si separano. Poco dopo, dalla città giunge il rumore di alcuni
spari. Pin teme per la vita di Cugino, ma questi sbuca nuovamente dall’ombra:
«Sai, m’è venuto schifo e me ne sono andato senza far niente».
A questo punto è evidente che il
vero, grande amico di Pin altri non può essere che il partigiano che si
interessa dei nidi di ragno. Il romanzo si conclude con la descrizione dei due
che si allontanano: «E continuano a camminare, l’omone e il bambino, nella
notte, in mezzo alle lucciole, tenendosi per mano».
Calvino, giacché adotta il punto di
vista del ragazzo, non dice apertamente ciò che tuttavia è quantomeno lecito
arguire: Cugino ha dovuto eseguire la condanna della sorella di Pin, spia dei tedeschi.
C’è un forte senso di pietà nel suo comportamento, una umanità – come notò
Cesare Pavese – acuita dal marcato tono fiabesco con cui è narrata l’intera
vicenda. La guerra impone infatti delle scelte drastiche – e ci sono cose che
vanno fatte, senza esitare –, ma ciò deve spingere i sopravvissuti a trovare un
punto d’incontro nella solidarietà, un comune senso di appartenenza nella
volontaria sottomissione a un ideale di giustizia.
Calvino non ha dubbi su chi siano i
giusti, e nella Presentazione scritta appositamente per l’edizione del 1964 si
rivolge provocatoriamente ai detrattori della Resistenza con queste parole:
«D’accordo, farò come se aveste ragione voi, non rappresenterò i migliori
partigiani, ma i peggiori possibili, metterò al centro del mio romanzo un
reparto tutto composto di tipi un po’ storti. Ebbene: cosa cambia? Anche in chi
si è gettato nella lotta senza un chiaro perché, ha agito un’elementare spinta
di riscatto umano, una spinta che li ha resi centomila volte migliori di voi,
che li ha fatti diventare forze storiche attive quali voi non potrete mai
sognarvi di essere».
Eppure c’è qualcosa di ben più
complesso nel romanzo, qualcosa di sottinteso, forse anche per una questione di
pudore. È sempre la Presentazione a fare un po’ di chiarezza. Calvino afferma
di sentire il peso della responsabilità di doversi fare testimone di un’epoca e
di un’esperienza vissuta tra mille incertezze; ma percepisce se stesso come
inadeguato, in quanto partigiano borghese, certo un po’ atipico, che
inizialmente «aveva preso la guerra come un alibi».
Ecco allora che lo sguardo di Pin diventa quello dello scrittore, che si
accosta ad un mondo da cui si sente al contempo attratto e respinto, un mondo
affascinante ma distante per ideologia e cultura. Calvino avverte cioè
l’esigenza di fare qualcosa nel drammatico contesto della guerra civile, ma nel
momento in cui si risolve a fare una scelta di campo non è sostenuto da
granitiche certezze, bensì solo da un indefinito (e indefinibile) senso del
dovere: «La mia scelta del comunismo non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche.
Sentivo la necessità di partire da una “tabula rasa” […]. Ma soprattutto
sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione».
Con tutta evidenza, siamo ben
distanti da qualunque intento celebrativo della Resistenza, che per Calvino il più
delle volte non è altro che il frutto di un’istintiva ribellione a un mondo
minaccioso, mai rassicurante, ma sostanzialmente indecifrabile. Cosa spinge
dunque poveracci, sbandati e intellettuali delusi a imbracciare il fucile? Cosa
possono avere in comune categorie sociali tra loro così distanti? Probabilmente
– si legge nel capitolo IX, dedicato alle riflessioni più propriamente
politiche – il coraggio, il furore che impone di desiderare un cambiamento,
anche se non si sa bene di che genere. A fare la differenza è «l’offesa della
loro vita, il buio della loro strada, il sudicio della loro casa, le parole
oscene imparate fin da bambini, la fatica di dover essere cattivi. E basta un
nulla, un passo falso, un impedimento dell’anima e ci si trova dall’altra
parte, come Pelle, dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo
stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso».
Detto altrimenti, la guerra obnubila
le menti, ed è troppo facile, dopo, fare retorica, come se tutto fosse stato chiaro
sin dal primo giorno. Poi, certo: c’è la storia. E «noi [i partigiani], nella
storia, siamo dalla parte del riscatto», dalla parte del cambiamento che
trionfa sul tentativo di fossilizzare la realtà in un eterno presente. Calvino sa
di aver fatto la scelta giusta, anche se non sa spiegare fino in fondo perché
l’ha fatta. Come un bambino che vaga solitario per i boschi, respinto
dall’ostile mondo dei grandi, anch’egli avrebbe bisogno di essere preso per
mano.
Appuntamento ogni domenica su Prima Pagina con la rubrica Cose d'altri tempi
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